giovedì 27 marzo 2008

Genesis - Nursery cryme (1971)


I Genesis completano la triade dei giganti dell'era progressiva, con Yes e King Crimson, come detto in precedenza, nonchè completano la lista dei miei due gruppi prog preferiti. Sì perchè non so decidere se adorare di più i King Crimson per genialità, continuità e coerenza o i Genesis, che sono sì geniali ma non quanto i Crimson, non sono affatto coerenti nè continui, ma quanto mi piacciono, cazzo. Le emozioni che ha suscitato in me, appena quindicenne, l'ascolto di Selling England by the pound sono qualcosa di indescrivibile, avrò ascoltato quell'album più volte al giorno per un periodo che prende addirittura mesi, prima di scoprire che c'era un album che mi piaceva persino di più, cioè questo. I Genesis esordiscono nel 1969 con From genesis to revelation, francamente non un granchè, poi nel 1970 pubblicano Trespass, album più maturo e molto gradevole, che lascia intuire le enormi potenzialità del gruppo, e nel 1971 dopo l'ingresso di Phil Collins e Steve Hackett (che sostituisce Anthony Phillips, mica chiunque), raggiungono il successo. Nursery Cryme è ancora molto ingenuo, ma proprio per questo supera Selling England, a parer mio. Quest'ultimo infatti è molto più curato, rifinito, smussato, mentre Nursery Cryme è spontaneo, gioioso, genuino, oserei dire grezzo, per quanto sia necessario contestualizzare il termine. Peter Gabriel è mente, corpo ed anima del gruppo, cantante e flautista, autore dei testi e principale compositore, vero animale da palcoscenico, ove ama stupire il pubblico con travestimenti a dir poco bizzarri. Completano la formazione i già citati Phil Collins, batterista di fama mondiale, e Steve Hackett, chitarrista preciso e pulito, Tony Banks, tastierista rapido e vulcanico, e Mike Rutherford, bassista, il quale può sembrare il meno dotato del gruppo, ma a controprova di ciò ci sono i suoi lavori solisti, veramente di buona fattura. L'album è composto da tre minisuite e cinque canzoni più brevi, tutte splendide in ogni loro parte: si comincia con The musical box, sognante e romantica nell'incipit, furiosa e barocca poi, che narra della vicenda di una badante che giocando a cricket con il pargolo lo decapita per un colpo male assestato; poi vi è For absent friends, ballad breve e romantica; si prosegue con la canzone probabilmente più bella della produzione Genesis, o perlomeno la mia preferita, The return of the giant Hogweed, più progressiva e sperimentale rispetto a quanto fatto sentire fin ora, incentrata su un riff di chitarra semplicemente splendido e rafforzata dal gran lavoro al piano di Tony, narra del ritrovamento di una strana piantina in Russia che poi si rivelerà essere una creatura immonda e distruttiva (Hogweed); Seven stones, a seguire, registra la più struggente ed emozionante interpretazione di Gabriel fin ora sentita, canzone malinconica e strappalacrime narrante di un viaggio in nave di cui, sinceramente, non ho ben compreso il senso; si cambia completamente registro con Harold the barrel, canzone allegra e vivace, ma solo nel sound, narra infatti di un padre di famiglia (Harold) oppresso dalla routine quotidiana che decide di suicidarsi e mentre si sta per buttare da un palazzo sua madre gli grida che non poteva farsi vedere con quei vestiti sporchi dalle telecamere della BBC (questo sì che è humour inglese); si conclude con Harlequin che fa da intro a The fountain of Salmacis, ancora una volta molto romantica e sognante, che racconta la vicenda di Ermafrodite, che ora non sto ad esporre. Un album poetico, sognante, malinconico, onirico e surreale, una delle migliori interpretazioni della band e soprattutto di Peter Gabriel, mai così espressivo. In conclusione se a qualcuno non è ben chiaro il concetto di prog romantico i Genesis sono la risposta. Purtroppo non dureranno molto: nel 1975 Peter Gabriel decide di abbandonare, il gruppo va avanti per altri due anni con la formazione a quattro, promuovendo Phil Collins al ruolo di cantante, finché va via anche Steve Hackett e segna di fatto il passaggio al pop, il rapido successo nonchè la commercializzazione del gruppo, di cui Phil Collins è ora leader e principale interprete. Risparmierò la mia invettiva contro Phil, ma penso sia chiaro l'enorme odio che nutro verso di lui. Non ho voluto ascoltare neanche i due album con la formazione a quattro, per me i Genesis nascono e muoiono con Peter Gabriel, e questo è tutto.

martedì 25 marzo 2008

le Orme - Collage (1971)


La scena progressiva italiana è incredibilmente ricca e fiorente, dagli anni 70 ad oggi sono nati innumerevoli gruppi, mentre quelli storici calcano ancora le scene: Orme, PFM e Banco sono ancora attivi e tutt'ora è possibile vederli dal vivo, come mi è capitato con PFM e Banco e spero capiti presto anche per le Orme. Questi ultimi sono coloro che mi hanno introdotto e mi hanno fatto innamorare del sound progressivo, il loro album Collage è il terzo della carriera ma è il primo prettamente prog, dopo gli esordi beat che accomunano più o meno tutti i gruppi nostrani di quel periodo. Le Orme sono della provincia di Venezia e formate da Aldo Tagliapietra, bassista, cantante e chitarrista, Toni Pagliuca, tastierista, e Michi Dei Rossi, batterista, tutti dotati di tecnica straordinaria e di un gusto melodico tipico dei gruppi italiani; magari la voce di Aldo ad alcuni potrebbe non piacere per l'eccessiva enfasi, ma secondo me è divina. Il sound Orme è inconfondibile e di una eleganza unica, presentando tipici elementi melodici della musica pop ed attitudine prog, è proprio questa comunione di pop melodico e fughe progressive che mi ha conquistato. In questo album, nello specifico, i brani sono strutturati come canzoni pop, quindi strofa e ritornello, ma arricchite da spunti strumentali che rimandano alla musica classica, sinfonica o psichedelica. La prima traccia Collage è uno strumentale gioioso e trionfale, che cresce via via che il brano incalza e mostra tutta la ricchezza sonora che le tastiere di Toni sono in grado di offrire; la seconda Era inverno, la mia preferita, è una ballad per voce e chitarra in tipico stile Tagliapietra, in cui quest'ultimo racconta della sua infatuazione per una prostituta; la terza traccia Cemento armato è uno dei pezzi più famosi del gruppo ed una protesta ecologista contro il progresso poco rispettoso verso la natura: pianoforte, voce al megafono, basso e batteria tessono una trama crescente e ricca di sovraincisioni che conquista al primo ascolto; a seguire Sguardo verso il cielo è la traccia più melodica, con intermezzi sinfonici ad interrompere la trama pop; Evasione totale è condotta interamente da Pagliuca su una ritmica ripetitiva: aperture spaziali a tratti jazz a tratti avanguardistiche; le ultime due traccie sono Immagini e Morte di un fiore, meno interessanti ma sempre rispettabilissime. Questo disco, insieme ad altri che presto recensirò, fa capire come lo scenario progressivo italiano sia secondo solo a quello inglese.

venerdì 7 marzo 2008

Yes - Close to the edge (1972)


Yes, King Crimson e Genesis sono i tre gruppi più famosi e importanti nella storia del progressive: approcci stilistici totalmente diversi, carriere e fortune divergenti. Gli Yes riescono a costruire un proprio sound, un proprio stile ben definito e inconfondibile, come gli altri due gruppi d'altronde: il loro è un prog solare, luminoso, non esistono momenti tristi o malinconici, anche le ballate per sola chitarra risultano canzoncine allegre e gradevoli, ogni nota è lustrata fino all'abbaglio, la musica è imponente e ariosa. Dei tre sono il gruppo che apprezzo meno, infatti recensirò un solo album, cioè Close to the edge del 1972. E' il miglior periodo per gli Yes, vengono da due ottimi album che ne stanno delineando lo stile unico, la formazione è al top, dispone di cinque elementi validissimi, fin troppo validi, infatti questo insieme di forti personalità porterà ad un imminente cambio di formazione. Ma andiamo con ordine. La line-up è la seguente: Jon Anderson, il cantante, e Chris Squire, il bassista, sono i fondatori del gruppo, dai Tomorrow arriva Steve Howe, chitarrista di gran talento, dagli Strawbs arriva Rick Wakeman, l'unico tastierista a reggere il confronto con Keith Emerson, mentre il batterista è Bill Bruford, che dopo questo album passerà nelle file dei King Crimson. Tale spiegamento di forze produce risultati di una qualità elevatissima. L'album è composto da tre pezzi, la lunga suite che dà titolo al lavoro e che occupa tutta la prima facciata, e due canzoni lunghe che occupano la seconda. La prima canzone è Close to the edge, 18 minuti di atmosfere bucoliche ed eteree all'inizio, jazzate e sinfoniche poi, neoclassiche e gotiche sempre, un brano in cui ci si perde all'istante. La seconda è And you and i, costruita su arpeggi di chitarra semplicemente celestiali, molto elegante. Infine vi è Siberian Khatru, traccia quasi pop, gradevolissima. Bill Bruford mette in mostra in questo album tutto il suo gusto melodico, uno dei pochi batteristi in grado di combinare tecnica e melodia in maniera quasi impercettibile; di fianco a lui Chris Squire si distingue per la sua tecnica unica, le pulsazioni del suo basso si slegano e si legano con la batteria a suo piacimento, senza perdere mai in potenza e precisione; Steve Howe colora ogni nota con un gusto personalissimo, fra la psichedelia e il pop; Rick Wakeman strapadroneggia le sue tastiere, cambiando timbri e velocità come se nulla fosse, e l'assolo su Close to the edge è devastante; infine Jon Anderson canta in una maniera pulitissima e gradevolissima, raggiungendo note stratosferiche. Ogni frazione di questo disco potrebbe fornire spunti per altri dieci dischi, tanto le idee sono concentrate e originali, mai ridondanti. I testi, creati da Jon, parlano di mondi lontani e bislacchi, e ben si adattano con l'incedere del ritmo. La copertina è ancora di Roger Dean, il disegnatore di quasi tutte le copertine degli Yes e di altri gruppi, disegnatore visionario e surreale. E' il momento di massima creatività per gli Yes, mai più saranno raggiunti tali livelli, e il declino di questo gruppo comincerà presto, purtroppo.