giovedì 21 febbraio 2008

Pink Floyd - Animals (1977)


Il mio album preferito dei Pink Floyd. Sebbene sia consapevole del maggior spessore artistico di opere come Atom hearth mother, Meddle e ovviamente The wall, quest'album è un urlo di ribellione, oltre ad essere musicalmente stupendo. I Pink Floyd sono il gruppo progressive più famoso, sebbene siano associati più alla scena psichedelica inglese che al progressive in generale, e ciò è vero, ma è anche vero che molti album sono più opere progressive che psichedeliche, e questo è uno di quelli. David Gilmour canta e suona la chitarra, Richard Wright è il tastierista, Nick Mason il batterista e Roger Waters è il leader del gruppo, nonchè bassista, autore dei testi e, in questo caso, delle musiche, tranne Dogs, scritta in collaborazione con Gilmour. L'ispirazione dell'album scomoda nientemeno che George Orwell: le tracce portano il nome di un animale e tali animali sono figure allegoriche della società: è il 1977, sta per esplodere il punk e la ribellione sociale inglese, questo album è una denuncia aspra e pessimista del sistema economico e sociale. Quindi vengono abbandonate le tematiche cosmiche degli album precedenti per addentrarsi nell'attualità, e ciò segna molti punti di vantaggio secondo il mio metro di giudizio. La prima e l'ultima traccia sono una intro e una outro con lo stesso tema musicale: si sentono unicamente la voce e la chitarra di David, che esprime glacialmente tutto il suo pessimismo su un motivo molto dolce e melodico. Poi comincia Dogs, lunga suite sugli arrampicatori sociali: più che cani sciacalli, pronti a nutrirsi dei resti di chiunque per poterne prendere il posto e continuare così la propria scalata alla carriera ed al potere. Si continua con Pigs, i maiali che stanno al potere, e si conclude con Sheep, le pecore che obbediscono senza alzare il capo contro i propri padroni. Musicalmente le tre suites sono simili strutturalmente, cioè basso e tastiere sostengono gli assoli di chitarra, che si alternano alle lunghe aperture spaziali delle tastiere elettroniche di Richard, mentre la batteria è sempre e solo un accompagnamento, ma diverse dal punto di vista della composizione, ovviamente. Tutte e tre comunque bellissime e godibili dal primo all'ultimo secondo, inoltre vi è sempre un pezzo in cui si sentono i versi campionati degli animali che intitolano la traccia, molto divertente ed originale. In conclusione un album interessante soprattutto per i contenuti, molto bello musicalmente, molto bello per la copertina che ritrae una fabbrica londinese, luogo di culto per rockettari di tutto il mondo (ho il vinile anche di questo), fornisce uno spaccato della società inglese di fine '70, mettendone in risalto contraddizioni e problematiche. Di lì a poco Johnny Rotten imprecherà contro la propria regina, e non è di certo un caso.

venerdì 15 febbraio 2008

Van der Graaf Generator - Pawn Hearts (1971)


I Van Der Graaf Generator sono, a parer mio, uno dei gruppi più sottovalutati della storia del progressive. Autori di una buona manciata di album, riformatisi pochi anni fa, tutti i loro lavori sono discreti, ma il capolavoro è Pawn Hearts del 1971, che ora recensisco. Il loro è un prog a tinte scure, molto dark e molto psichedelico, a tratti jazzato a tratti sinfonico, ma sempre acido, molto acido, acido con la pala direbbe un mio amico. Peter Hammill ne è leader ed interprete principale con voce, chitarra e tastiere, David Jackson fa e disfa con il suo sax, mentre Hugh Banton (basso) e Guy Evans (batteria) non sono protagonisti evidenti ma compongono una sezione ritmica precisa ed affidabile. L'album si compone di tre traccie, tre suites, quindi molti cambi di tempo, mai ripetizioni dello stesso tema, sfuriate strumentali e momenti più lenti, ma mai ariosi, atmosfere cupe e sinistre, che vogliono comunicare un senso di inquietitudine. E infatti la sensazione provocata è proprio ansia ed agitazione: la tensione è latente e si ha sempre l'impressione che qualcosa di terribile stia per accadere. Potrebbe dare un senso di frammentarietà ma in realtà non è così: ogni pezzo si incastra alla perfezione con il precedente e il successivo, e l'album scorre via piacevolmente. Il sound non è di facile assimilazione, al primo ascolto non vi piacerà, e magari neanche al secondo, ma appena si riesce a cogliere la melodia, perchè c'è la melodia, non potrete più fare a meno di ascoltarlo ad intervalli di tempo regolari. La mia canzone preferita è la seconda, solo perchè è leggermente più melodica delle altre, ma tutto l'album è stupendo, in ogni sua parte, in ogni sua nota. Inoltre tutti e quattro i musicisti suonano anche strumenti rumoristici bizzari, tipo lo psychedelic razor, che non ho idea di cosa sia, quindi il suono è molto ricco e variegato. I testi, tutti by Peter Hammill, parlano di problemi esistenziali, e Peter canta disperato tutto il suo disagio, tutta la sua inadeguatezza fino all'inevitabile suicidio (solo figurato per fortuna). Anche questo album lo posseggo originale e ne consiglio vivamente l'ascolto, se vi piace non potrete mai più farne a meno.

mercoledì 13 febbraio 2008

King Crimson - In the court of the Crimson King (1969)


Gli storici fanno cominciare l'era progressiva con questo album: io non credo sia possibile porre una data alla nascita di un genere, però ciò rappresenta l'incredibile importanza di questo album. Innanzitutto il gruppo: i King Crimson sono la band più longeva, rappresentativa, prolifica, innovativa del progressive, nelle cui fila hanno militato personaggi poi destinati a carriere folgoranti. Questo primo album è stato realizzato da, ovviamente, il primo nucleo dei King Crimson, cioè il leader indiscusso Robert Fripp, l'unico rimasto negli anni e ancora al comando, chitarrista e pazzo visionario, Greg Lake, bassista e cantante, futuro ELP, Mike Giles alla batteria, Ian McDonald al sax, flauto e mellotron, futuro Foreigners. Da non sottovalutare la presenza di Pete Sinfield, autore dei testi, spesso oscuri e apocalittici. L'album è incredibilmente innovativo: nel 1969 band come Soft Machine, Nice e Procol Harum tentavano le prime contaminazioni fra rock e musica classica o jazz, i King Crimson vanno ben oltre tutto ciò, la loro è una musica barocca, oscura, psichedelica, surreale e romantica al tempo stesso. L'attacco dell'album è incredibile: la prima traccia 21st Century schizoid man è trascinata dalla chitarra di Fripp e dal sax distorto di McDonald, su cui la voce, anch'essa distorta di Lake, racconta di un ipotetico uomo futuro allucinato ed alienato, un suono del genere non si era mai sentito; la seconda traccia cambia completamente registro ma si incastra alla perfezione con la precedente: I talk to the wind è guidata dalla voce di Greg e dal flauto di Ian, oltre alla onnipresente chitarra, brano molto dolce e melodico, che comunica un senso di quiete molto surreale, presto rotto dall'incedere della terza traccia, Epitaph, di una malinconia incredibile, si avverte quasi il dolore dell'uomo moderno espresso dal mellotron, mentre Greg canta "but i fear tomorrow i will be crying"; Moonchild è una canzone divisa in due parti ben distinte: la prima parte è molto melodica, Greg canta con voce sommessa, mentre Robert e Ian tessono trame sonore calme e rilassanti, per poi interrompersi improvvisamente e lanciarsi in un pezzo onirico terribilmente psichedelico e rumorista, a cui partecipano tutti e quattro i musicisti; infine In the court of the Crimson King, condotta dal mellotron e da un coro ripetitivo che rende un'atmosfera opprimente e apocalittica. Questo sarà l'unico album prodotto da questa formazione, infatti Robert Fripp scioglierà subito il gruppo e lo riformerà con altri musicisti, e ciò accadrà varie volte a causa del terribile carattere del chitarrista, troppo tendente ad un comando quasi dittaturale. In ogni caso i risultati saranno spesso ottimi, questo non è l'unico album del Re Cremisi che recensirò, ma è sicuramente il mio preferito, ed un album chiave nella storia della musica rock, da ascoltare assolutamente anche se il progressive non vi piace affatto. Vorrei aggiungere che sono veramente fiero di possederlo in vinile in versione originale datato 1969, peccato che su ci siano le iniziali di mio padre...

mercoledì 6 febbraio 2008

Emerson, Lake & Palmer - Emerson, Lake & Palmer (1970)


Emerson Lake & Palmer: o li ami o li odi, non esistono vie di mezzo. Il loro è un prog pomposo, appariscente, spettacolare, magnifico ai miei occhi, eccessivo agli occhi di altri. Le canzoni sono di immediata derivazione classica, Keith Emerson è un mago in ciò, quindi il sound è un prog sinfonico incentrato, ovviamente, sulle tastiere. Keith Emerson, già leader dei Nice, fra i primi insieme a Procol Harum e Moody Blues a proporre una rivisitazione in chiave rock della musica classica, nel 1970 organizza un super gruppo con Greg Lake, bassista e vocalist de King Crimson, e Carl Palmer, drummer degli Atomic Rooster, chiamato Emerson Lake & Palmer, a dimostrazione dello spiccato egocentrismo dei tre. Il primo album, che ora vado a recensire, è un capolavoro poichè la musica è ancora un equilibrato mix tastiere-basso-batteria; col passare del tempo Emerson assumerà sempre più il comando del gruppo, che diventerà una macchina commerciale, e quindi il suono si sposta interamente sulle tastiere. Ho ascoltato tutta la loro discografia e album come Tarkus, Trilogy o Brain Salad Surgery non sono affatto male, anzi, ma ce ne sono altri, come Love Beach, completamente da evitare, quindi se non li avete mai ascoltati e dopo l'ascolto del primo album non vi sono piaciuti, vi consiglio di fermarvi qui, altrimenti ascoltate anche tutto il resto. L'album si apre con quello che è a mio parere il miglior pezzo degli ELP: The Barbarian, pezzo breve e al fulmicotone: Keith va a duecento, degnamente supportato da Lake, mentre Palmer dimostra tutta la sua (insospettabile fin ora) classe nella parte finale quando chiude il pezzo accelerando in una maniera inaudita. La seconda traccia, Take a pebble, è il pezzo più lungo dell'album, e qui duettano alla grande Keith e Greg: dopo un'introduzione piano e voce il filo conduttore passa al bassista che ora imbraccia la chitarra acustica, dopodichè le tastiere ritornano a condurre per il finale che richiama il tema di apertura. Bellissimo. La terza traccia, Knife-Edge, è condotta interamente da Keith più la calda voce di Greg: allegra, veloce e incredibilmente semplice, fantastica. La traccia successiva, The three fates, è una breve suite condotta ancora da Keith, ma supportato alla grande dai due compagni: divisa in tre parti, ciascuna intitolata ad una delle tre parche, o moire, esecutrici del fato nella mitologia greca, cioè Clotho, Lachesis e Atropos. La quinta traccia, Tank, è una canzone ben strutturata divisa nella conduzione fra il solito Emerson e, stavolta, Carl Palmer, autore di un pregevole assolo nella parte centrale. Infine, Lucky man è una ballata firmata Greg Lake e quindi composta da voce, chitarra acustica e batteria, eccetto l'invadenza di Keith nella parte finale. In conclusione è un album da ascoltare sicuramente per chiunque sia appassionato di progressive; a qualcuno non piace un sound troppo incentrato sulle tastiere, ma l'abilità di Emerson è magistrale, e nel 1970 era ancora con i piedi per terra.

martedì 5 febbraio 2008

Colosseum - Valentyne Suite (1969)

Ciao a tutti. Io sono bob e questo è il mio primo post del mio primo blog, un blog dedicato alla musica progressive, il mio genere musicale preferito. Tale blog non ha alcuna pretesa, semplicemente recensisco quelli che sono i miei dischi preferiti dei miei autori preferiti, e mi piacerebbe ascoltare i vostri pareri e magari i vostri consigli, per allargare il mio orizzonte musicale. Comincerò con un gruppo a me molto caro, i Colosseum, i quali esordiscono con un album mediocre e sfondano con il secondo, Valentyne Suite nel 1969, di cui la recensione. L'album è diviso in due sezioni nettamente distinte, che originariamente componevano il lato A e il lato B del vinile. Fra l'altro il vinile lo avevo pure trovato in un mercatino a Bari, ma costava intorno ai 70 euro, quindi ho dovuto ripiegare sul cd, comunque è probabile che sia ancora lì, se a qualcuno può interessare. Il lato A è composto da quattro canzoni brevi e melodiche, molto inclini al blues, con la bella voce del chitarrista James Litherland che fa da protagonista. Molto belle la prima traccia The Kettle e la quarta The machine demands a sacrifice. La seconda facciata è un vero e proprio capolavoro: composta da un'unica suite divisa in tre atti, The Valentyne Suite, è rapida e veloce, alterna jazz a blues a rock sinfonico, fa emergere la grandissima caratura tecnica dei musicisti, insomma è fighissima, e quando finisce non rimane altro che dire "ma come, è già finita?". Il batterista Jon Hiseman è in grande spolvero, è potente e rapido e la sua tecnica inconfondibile, rullanti e piatti a palla, pochi come lui sanno dettare il ritmo, insieme al bassista Tony Reeves costruiscono un muro di suono su cui un indiavolato Dave Greenslade alle tastiere ed il sassofonista Dick Heckstall-Smith, secondo solo a David Jackson probabilmente, tessono trame veloci e coinvolgenti. Tutto il disco è godibilissimo e scorre via come pochi, non ha momenti deboli o neanche vagamente noiosi, sembra addirittura troppo breve. Penso che quest'album sia l'emblema di un prog contaminato da blues e jazz, nessun altro saprà fare altrettanto, almeno non così bene. Dopo altri due album il gruppo si scioglie, rinasce nel 1975 sotto la sigla Colosseum II, si riscioglie e rinasce negli anni 90 ancora come Colosseum, ma il gruppo non sarà mai più in grado di ripetersi. Beh, direi che questo è tutto, se non conoscete questo album scaricatelo ed ascoltatelo, se ne avete voglia, perchè merita. Alla prossima.