lunedì 25 agosto 2008

Pan - On the air (1970)

I Pan sono uno degli innumerevoli gruppi sconosciuti ai più, non proveniendo da una nazione famosa per la produzione musicale, la Danimarca, e avendo una discografia alquanto scarna, ovvero composta da un unico album. Imbattersi in una di queste band solitamente avviene casualmente, infatti leggiucchiando qua e là su blog e siti vari sono stato colpito da una buona recensione del loro unico omonimo album del 1970, posterei il link se avessi una vaga idea di dove ero finito. Questo album omonimo l'ho cercato a lungo anche sui circuiti di file sharing ma l'unica cosa che ho trovato è una sua esecuzione live per una radio danese da cui è stato estratto l'album in questione. Quindi non penso ci sia molta differenza fra l'album in studio e il suddetto, infatti non sembra neanche di sentire un live. L'origine del gruppo risale a quando tal Robert Lelievre, francese di nascita, per sfuggire al servizio militare decide di partire in giro per l'Europa in perfetto stile figlio dei fiori e in Danimarca incontra i suoi futuri compagni di avventura Arne Wurgler al basso, Henning Verner all'organo, Thomas Puggard-Muller alla chitarra, Michael Puggard-Muller alla batteria e Niels Skousen alla voce, mentre Robert suona la chitarra e canta. Tutte le canzoni sono state scritte dal musicista francese il quale, purtroppo, mostra presto segni di squilibrio psichico e il gruppo di fatto finisce qui, rendendo il lavoro un album culto per gli appassionati. Robert non riuscirà mai a liberarsi dei propri demoni interiori e si suiciderà nel 1973. Lo stile dei Pan è un prog molto tendente al blues, le chitarre sono spesso in evidenza mentre l'organo è spesso in disparte, i testi raccontano più che altro della vita avventurosa dell'autore e dei suoi ingenui pensieri cosmopoliti e pacifisti. Il disco si apre con Far away from home, uno dei pezzi migliori e il più breve, la chitarra introduce il pezzo poi incalzata dalla voce, si trasforma in un country blues nella parte centrale per poi riprendere il tema di apertura in poco più di due minuti, molto molto bella; si prosegue con Freedom, un inno alla libertà dell'individuo, come dice il titolo, traccia lunga introdotta da un drumming solido ed efficace in cui subito si insinua un riff di chitarra indovinato e coinvolgente, dopo la canonica strofa vocale il gruppo si lancia in un pezzo strumentale quasi improvvisato, fra blues e jazz, per poi riconvergere al tema iniziale, anche questa una traccia piacevolissima; Time è ancora trascinata dalle due chitarre che si lanciano da subito in un rock'n'roll veloce e sfrenato, per poi virare verso una melodia molto dolce e malinconica e infine rilanciarsi nel rock'n'roll fino a riproporre la linea di apertura; I cannot keep for crying è il brano più lungo con i suoi quasi 15 minuti, è probabilmente il più dolce e malinconico, condotto dalla voce in primissimo piano e dalle immancabili chitarre, sfocia poi in un pezzo strumentale molto progressivo con l'organo che stavolta fa da padrone mentre le chitarre accompagnano solamente, in seguito i due strumenti si scambiano la scena fino all'ormai ovvia conclusione circolare; I ain't go no home (ramblin' man) è ancora un pezzo autobiografico per voce chitarra e armonica, breve e molto country; Deliverance è forse il pezzo più standard, composto da strofa e ritornello con chitarra e voce che conducono, a metà fra prog e blues; If i was another man è invece la traccia più blueseggiante, introdotta da voce e chitarra in una melodia molto coinvolgente che poi evolve in un pezzo improvvisato con organo e basso in grande evidenza, infine ripropone un pezzo cantato come in apertura; infine From a tree è invece il brano meno convenzionale, parte in crescendo con una bella linea di chitarra poi incalzata dalla voce e dagli altri strumenti che si lanciano in un pezzo molto melodico e piacevole, per poi continuare a sviluppare il tema fino alla fine del brano. Un album raro, unico nel suo genere, la morte di Lelievre lo ha consegnato alla leggenda, sicuramente da ascoltare se si ha la fortuna di imbattersi in esso.

martedì 5 agosto 2008

Lift - Caverns of your brain (1977)

Gli Stati Uniti paiono non essere stati contagiati minimamente dal virus progressivo, infatti solo negli ultimi tempi sono nate band famose americane, basta citare i Dream Theater, ma negli anni 70 sembravano ben lontani dalle tendenze europee, preferivano piuttosto dedicarsi all'hard rock o al blues, o al limite ad un certo pomp prog, sto parlando dei Kansas, degli Styx (di cui consiglio The serpent is rising) e dei Journey (di cui consiglio l'album omonimo). Tuttavia esiste un ristretto manipolo di gruppi che hanno tentato di rifarsi al prog europeo, soprattutto inglese, contaminandoli con spunti psichedelici tipicamente americani, anzi californiani, e di proporre un prog made in USA. Mi sembra doveroso citare un gruppo che è stato pioniere in tal senso, cioè gli Iron Butterfly, autori di un album rimasto negli annali del rock, ovvero In a gadda da vida contenente l'omonima famosissima canzone (c'è anche nei Simpson quando Bart sostituisce gli spartiti della canzone da cantare in chiesa). I risultati non sono stati dei migliori ma alcune band hanno saputo elaborare proposte discrete, come i Pavlov's dog di cui avrò modo di parlare, o i Lift di New Orleans, autori di Caverns of your brain. Questo disco è stato realizzato nel 1974 ma per motivi economici non è stato pubblicato prima del 1977, anche se alcune copie illegali circolavano già prima. Come detto in precedenza, i Lift ricalcano i modelli europei ma li reinterpretano in maniera più blues, più aggressiva e passionale, mentre ai testi solitamente fantastici preferiscono tematiche introspettive. L'album si articola in quattro lunghe canzoni in cui i fraseggi fra chitarra e tastiere rappresentano la principale attrattiva del gruppo, mentre una certa rigidità nella composizione, quasi a segnalare una mancanza di fantasia, è la pecca principale. Infatti le canzoni presentano belle aperture e fughe psichedeliche, oltre a un vago richiamo ai Genesis di The lamb..., ma la ripetitività di cui ogni tanto soffrono non permette a questo album di essere annoverato fra i capolavori. Forse una sforbiciata qua e là si poteva dare, comunque nel complesso è un album gradevole, sicuramente ne consiglio l'ascolto. Il gruppo è composto da Chip Gremillion alle tastiere, Cody Kelleher al basso, Chip Grevenberg a batteria e percussioni, Richard Huxen alla chitarra e Courtenay Hilton-Green a voce e flauto. La traccia di apertura è Simplicity, condotta dalle tastiere che disegnano trame fantasiose e affascinanti, passaggi tastieristici di non facile esecuzione rendono il brano un crescendo progressivo di indubbio gusto; il secondo brano è Caverns, che comincia con distorsioni psichedeliche che rimandano un po' ai Pink Floyd o agli Iron Butterfly, e sfocia poi in un bel pezzo melodico di stampo sinfonico che disegna atmosfere oniriche con innesti di flauto e chitarra blueseggiante; il terzo pezzo sintetizza al meglio lo stile del gruppo, ovvero mirabolanti intrecci tastiere-chitarra trascinano l'ascoltatore in un mondo acido e schizofrenico, mentre finalmente la sezione ritmica si fa sentire con convinzione, rendendo il brano vivo e pulsante e rimandando al sound del sud degli Stati Uniti; la canzone finale Trippin' over the rainbow, suite di 20 minuti, si apre come uno dei migliori pezzi dei Kansas, cioè magniloquente e altisonante, per poi virare in sinfonia trascinata dai soliti duetti tastiere-chitarra che ancora una volta disegnano passaggi strumentali ardui e affascinanti. Un album da riscoprire, sicuramente.