lunedì 31 dicembre 2012

Argent - An Anthology (1976)

Come detto in precedenza, le antologie difficilmente riescono ad includere i successi "veri" di una band, cioe' quelle canzoni sconosciute ma bellissime, piuttosto contengono le hits commerciali e quei brani per fan dell'ultima ora. Alcune raccolte non cadono in questo errore, soprattutto quando la band in questione non ha una discografia estesa. L'antologia di cui vado a parlare si trova a meta' strada, scegliendo un approccio che tenta di scoprire qualche perla nascosta (Schoolgirl, Pleasure), ma nello stesso tempo cede alla tentazione del successo commerciale (Thunder and Lightning, God Gave Rock and Roll to You). Approccio che io condivido, perche' di una band bisognerebbe conoscere sia il lato piu' ispirato sia quello piu' venale. Gli Argent, nati nel 1969, raccolgono la diretta eredita' degli Zombies, gruppo dei sixties fra i primi a cimentarsi con le nuove sonorita' beat, in quanto fondati dall'ex tastierista Rod Argent, il quale puo' finalmente disporre di una band tutta sua in cui sfogare la propria ispirazione (che a quel punto stava francamente concedendo gli ultimi lampi). Il bassista Jim Redford ed il batterista Bob Henrit formano la sezione ritmica, pratica ed affidabile, e continueranno le rispettive carriere nei Kinks quando gli Argent si sciolgono nel 1976, mentre completa la formazione il controverso cantante e chitarrista Russ Ballard, altra anima e faccia della band, causa dei principali successi come dello scioglimento di questa. Argent crede nel prog e ne segue i principali dettami, a volte risultando non troppo originale, ma la sua fede e' genuina; mentre Ballard e' un chitarrista che parte dall'hard ma in questi anni sta virando verso qualcosa di piu' immediata fruizione, pop e anche disco. Di conseguenza lo stile generale della band si trova giusto in mezzo, fra prog di stampo sinfonico, beat, qualche vagito jazz, hard rock e pop music, il cui lascito non e' dei piu' memorabili ma neanche tutto da buttare via. Strano destino quello degli Argent: troppo famosi per diventare poi una band culto ed essere quindi rivalutati, troppo inferiori ai soliti noti per lasciare tracce indelebili come i veri giganti del prog hanno fatto. A mio parere meritano comunque una chance, alcune canzoni sono delle piccole gemme da custodire con cura. Dicevo, finche' il dualismo e' collaborativo la musica funziona, quando invece Argent e Ballard entrano in collisione di idee circa la strada da intraprendere,  la convivenza non puo' piu' durare e uno dei due deve necessariamente lasciare la band. Ovviamente e' stato Ballard, visto che il fondatore era proprio Rod Argent ed anche perche' Russ era piu' interessato alla carriera solista. C'e' tempo per un altro paio di dischi, trascurabili, prima dello scioglimento definitivo. Sfortunatamente le canzoni non sono in ordine cronologico, quindi non seguiro' la scaletta di questa antologia nel passarle in rassegna. Il primo album omonimo, 1970, risulta molto equilibrato, con Rod che riesce a tenere il chitarrone di Russ sullo sfondo, ma ne sfrutta appieno le impressionanti doti vocali, e l'immediata eredita' degli Zombies e' ancora ben presente e giova al risultato finale. Liar, seconda canzone di quest'album e sesta dell'antologia, e' uno dei brani piu' prog mai realizzati dagli Argent, con cambi di tempo repentini, struttura complicata e atmosfera oscura. Schoolgirl, quarta canzone di quest'album e prima dell'antologia, e' un capolavoro pop-beat: melodia catchy, commovente, voce intonata e pulita, piano che conduce e testi che parlano di un amore adolescenziale ai limiti dell'erotico. Con Ring of Hands nel 1971 i primi attriti cominciano a farsi sentire, e l'abum vive di momenti Argent-oriented ed altri Ballard-oriented. L'unico brano tratto da questo disco e' Pleasure, terza traccia, un altro capolavoro pop molto Beatles nello stile. Con All Together Now, 1972, il divario fra i due musicisti si amplia ulteriormente, ma l'album ne trae inaspettatamente vantaggio, risultando diviso in canzoni tendenzialmente hard/rock'n'roll, ed altre spiccatamente prog. La prima tipologia e' quella piu' convincente e i brani Hold Your Head Up e Keep On Rollin', rispettivamente quarto ed ottavo dell'antologia, presentano melodie indovinate, andamenti sostenuti, soli di piano ed organo, ed un'atmosfera generale allegra e rassicurante. Arriviamo quindi al 1973, anno in cui viene pubblicato il criticatissimo In Deep: album sempre nettamente diviso fra pezzi scritti da Argent ed altri scritti da Ballard, ma questi ultimi raggiungono il loro apice di pacchianita' e velleita' commerciali, tanto che molti progster non hanno mai perdonato cotanta sfrontatezza e hanno di conseguenza depennato gli Argent dalla lista delle band progressive (scrive George Starostin: "This is possibly the cheapest piece of trash ever written by Mr Ballard."). La canzone sotto accusa e' God Gave Rock And Roll to You (numero 7), l'imputazione e' l'aver deliberatamente tratto ispirazione dalla musica gospel piu' becera ed aver peggiorato la situazione con un testo banale ai limiti del sopportabile. Secondo il mio modesto parere, e' un brano carino ed orecchiabile, c'e' ben di peggio nel prog moderno. La seconda traccia tratta da questo disco e' It's Only Money (Part I), che figura come seconda canzone dell'antologia, e risulta molto prog oriented, seppur siamo lontani dal capolavoro. Arriviamo al 1974 e Nexus, l'ultimo lavoro con Ballard che in questo album partecipa meno in fase di scrittura (causa ostracismo di Argent?). La band prova a virare stile ancora una volta ma cio' che ne esce fuori e' un'accozzaglia disordinata e disomogenea di prog, hard, pop ed elettronica. L'unico pezzo estratto e' Thunders and Lightning, interessante piu' che altro per il tentativo di sperimentazione con sonorita' che saranno poi sviluppate meglio dai Kraftwerk. Qui finisce l'album, e' quasi il 2013 e io devo andare a festeggiare.

mercoledì 21 novembre 2012

Ache - Green Man (1971)

E' sempre un gran piacere scoprire band semisconosciute, sperdute in Paesi non generalmente famosi per la produzione musicale, ma in grado di sfornare album come quello in questione. La quantita' di lavori sepolti nell'underground prog dalla fine degli anni 60 fino all'inizio dei 70 e' sconfinato e sa regalare gemme di rara bellezza ai suoi pazienti minatori. Gli Ache sono una band danese nata sul finire dei '60 e autrice di quattro album (seppur uno non progressivo) fra il 1970 ed il 1977. Sembra suonino ancora in giro ma non hanno mai pubblicato piu' nulla da allora. Personalmente ho apprezzato molto questo album, vario, breve e senza punti deboli sostanzialmente. Lo stile e' molto late sixties, soprattutto nelle liriche, infarcite di riferimenti alla societa' e trip psichedelici, con una  netta tendenza verso l'hard, che si tinge spesso di space e sinfonismi. La parte del leone la fanno le tastiere, anzi un grande e grosso organo hammond, che a tratti ricorda lo stile di Ray Manzarek, con la chitarra non sempre protagonista, ma quando lo e' sfoggia virtuosismi spettacolari. La band e' composta da Torsten Olafsson a  basso  e  voce, Peter Mellin ad organo, piano e vibrafono, Finn Olafsson (che ai tempi aveva appena 17 anni) alla chitarra, Glenn Fischer a batteria e percussioni. L'album comincia con una traccia lunga (7 minuti), Equatorial Rain: intro di voce ed organo, drammatica e glaciale, con rumore di pioggia in sottofondo ed incalzanti arpeggi di chitarra. Dopo due minuti e mezzo basso e batteria irrompono mentre l'organo sale in cattedra con un riff hard rock molto bello, ancora duettando alla grande con la voce. Prima del finale viene riproposto ancora una volta il motivo iniziale, con tutto il suo carico atmosferico teso e pesante. Sweet Jolly Joice e' una breve traccia dominata dalle tastiere e dal basso, con la voce che piu' che altro narra ed annuncia. Perfetto esempio di come un brano semplice possa raggiungere vette di magnificenza. Un solo di chitarra a meta' canzone contribuisce ad arricchire ulteriormente la struttura. The Invasion presenta ancora una bella intro organistica, fra hard e space, prima che parta il coro prima e la chitarra poi. Quest'ultima si esibisce in evoluzioni acide che rendono questa la traccia piu' psichedelica del lotto. La voce fa capolino solo dopo 3 minuti e mezzo, a rallentare improvvisamente un ritmo finora molto sostenuto, e cambiando completamente il brano. La chiusura e' affidata invece alla chitarra, sempre molto lisergica. Con Shadow of Gypsy siamo al momento malinconico ed intimista: l'organo pennella colori decadenti, mentre il cantante si lascia andare alla nostalgia ed al rimpianto. Con l'ingresso del coro i toni si fanno ancora piu' melodrammattici, in seguito la chitarra si adegua all'andazzo generale, esibendo un altro ottimo assolo, ora molto piu' caldo e blues. Finale inaspettato, che vede protagonista un'insolita tromba, che solleva un pochino gli animi. La title track consiste di una intro di chitarra acustica, presto incalzata dall'elettrica. Quando subentrano il basso e le percussioni e' un gran sentire: atmosfere sixties, sembra di sentire i Kinks o anche i Caravan, note accoglienti e felici, atmosfere spensierate. Una canzone semplice ancora una volta ma con risultati strabilianti, ascoltare per credere, che non si fa mancare neanche i proverbiali coretti e l'onnipresente organo. Con Acheron e' stavolta il basso che si prende cura dell'introduzione, anche se la chitarra invade abbastanza presto, esibendosi in un solo ora molto rock, con le tastiere sullo sfondo a disegnare galassie lontane. Gradualmente i due strumenti si scambiano le parti, con la chitarra che va in loop e l'organo che diventa protagonista principale, per un grande effetto. La chiusura jazzy ci ricorda che siamo di fronte ad un album prog, il che implica varieta' di stili e sperimentazione. Infine We Can Work it out Working: ultima traccia, la piu' lunga (8 minuti), parte con chitarra ed organo che vanno spediti a delineare arie tese e nervose, salvo poi calmarsi un attimo con l'ingresso del basso e della voce, che dona ora un velo di malinconia. Il resto del brano gioca sull'alternanza di momenti piu' rock con la chitarra in primo piano, ed altri piu' romantici, con la voce invece principale interprete, senza tralasciare refrain tastieristici, momenti percussivi ed altre carinerie tipicamente progressive. Un lavoro di altissima qualita', che alla base hard/proto-prog aggiunge elementi psichedelici e pop sessantino, con qualche momento jazzato e sinfonico. Sono album come questi che mi spingono a continuare a cercare, che mi fanno sperare che ci sia ancora molto da scoprire.

martedì 2 ottobre 2012

Porcupine Tree - Coma Divine (1997)

Ci sono gruppi musicali che vanno ascoltati a prescindere, indipendentemente dai propri gusti. E' per una questione di cultura. Per esempio, ogni rockettaro che si rispetti dovrebbe avere una buona base di Beatles e Rolling Stones, ogni metallaro convinto dovrebbe conoscere a menadito la discografia degli Iron Maiden, mentre Clash e Sex Pistols dovrebbero campeggiare sulle mensole di ogni punkettaro degno di questo nome. I mostri sacri del prog sono i soliti noti, Genesis, Yes e King Crimson, ma non solo. Data la natura cangiante e mutevole del genere, soggetto a massicci cambiamenti con l'avanzare della tecnologia e la contaminazione con altri generi, il prog annovera altre band che andrebbero sicuramente ascoltate, sempre per quella cosa della cultura. Non prendero' mai sul serio qualcuno che non ha mai ascoltato i Marillion, rappresentanti del neo prog per eccellenza, o i Porcupine Tree, miglior band prog degli anni '90 nonche' iniziatori di quel percorso che poi portera' al new prog ed al post prog. Ma come si potrebbe porre il novizio di fronte a discografie sconfinate come quelle dei gruppi sopra menzionati? Ci sono essenzialmente tre approcci: ascoltare un greatest hits predefinito, scelta alquanto infelice visto che i greatest hits contengono di solito selezioni effettuate dalla casa discografica, che bada piu' alle hits ed ai pezzi piu' catchy, quindi di solito la peggior parte della discografia di una band; ascoltare un live, magari uno dei piu' recenti o qualcuno di quelli giudicati impeccabili dalla critica, atteggiamento migliore del primo visto che i live di solito contengono scalette scelte personalmente dalla band, ed il concerto da' anche una dimostrazione abbastanza fedele della reale bravura di una band, della sua passione, ecc.; infine, mettersi con la santa pazienza ed ascoltarsi ogni singola canzone di ogni singolo album, operazione non sempre possibile per mancanza di tempo o quando i gusti dell'ascoltatore non sono propriamente compatibili con il taglio stilistico della band. Per quest'ultimo motivo ho scelto il disco live per introdurmi a questo gruppo. Riconosco l'incredibile valore della band e la qualita' di molti dei loro brani, ma quel sound floydiano, quella psichedelia moderna non incontra molto i miei gusti. Ciononostante, i Porcupine Tree rivestono un ruolo di fondamentale importanza storica, in quanto sono stati i primi a coniugare temi e stili prelevati dal prog rock settantiano, Pink Floyd appunto e King Crimson, ma riadattati e rivestiti di una modernita' che alla fine sconvolge completamente il suono, creando qualcosa di nuovo ed originale che si potrebbe accostare ad un primissimo post rock. I Porcupine Tree sono stati anche responsabili della riscoperta del prog nei '90 e grazie a loro molti giovani ascoltatori sono potuti venire a conoscenza delle band del glorioso passato di questo genere musicale.
I Porcupine Tree nascono in Inghilterra nel 1991 quasi per scherzo, quando il polistrumentista e cantante Steven Wilson si inventa una band che non esiste per il suo primo album On the Sunday of Life, ancora molto debitore dei Pink Floyd, pur con qualche lampo jazz. Il libretto allegato contiene una finta biografia della band e dettagli sugli immaginari musicisti. Nel 1993 il bassista Colin Edwin ed il tastierista ex Japan Richard Barbieri si uniscono a Steven Wilson, mentre il nuovo album Up the Downstair  si sposta su suoni piu' ambient, grazie alle tastiere del nuovo entrato. Nel '95 la band diventa un  quartetto, con l'ingresso del batterista Chris Maitland, e nello stesso anno da' alla luce The Sky Moves Sideways, mentre due anni dopo arriva il capolavoro Signify, disco in cui si sente finalmente il loro sound caratteristico e che supera i riferimenti al prog d'annata. Il resto della discografia e' storia e riservato a chi volesse approfondire.
Coma Divine e' un doppio live registrato a Roma in 3 serate nel marzo del '97, opportunamente ripulito tanto che la qualita' del suono e' altissima, e contenente tracce dal disco d'esordio fino all'ultimo in quel momento cioe' Signify, per molti la parte migliore e piu' importante della loro carriera. Dopo una breve intro si parte con Signify, una cavalcata prog che vede un perfetto duetto Wilson-Barbieri, con il primo che si esibisce in un riff nervoso ed il secondo che si produce in tempi dispari. Con Waiting Phase One, seguito da Waiting Phase Two, si sentono echi di Pink Floyd, per un brano quasi pop, in crescendo, caratterizzato da un grande assolo di chitarra poggiato su un drumming molto espressivo. The Sky Moves Sideways e' un estratto dell'omonima suite, pezzo dolcissimo e toccante. Con Dislocated Day siamo di fronte ad un grande lavoro di batteria, ed uno dei testi piu' belli della band. The Sleep of No Dreaming e' una lunga ballata che si ispira ad atmosfere fiabesche e magiche, con arrangiamenti importanti e melodia molto accattivante. Con Moonloop si odono prima suoni dolcissimi di chitarra, organo e percussioni a fare da introduzione, poi il tutto prende la strada di un'infuocata improvvisazione blues/rock. Up the Downstair, minisuite di 10 minuti, parte da suoni spaziali e psichedelici, per poi tingersi di dark e hard rock. The Moon Touches Your Shoulder presenta melodie eteree, lasciate fluttuare nell'aria e circondate da accordi impalpabili.  Always Never e' una ballata, dolcissima e appena sussurrata all'inizio, per poi esplodere in un delirio rock e tornare quindi sui suoi passi prima della fine. Is... Not alterna fasi di musica cosmica estremamente disgregata a fasi di rock incalzante, mentre Radioactive Toy e' un pezzo di 15 minuti di pura psichedelia. Infine, Not Beautiful Anymore, brano stralunato e claustrofobico, chiude un album diventato pietra miliare del prog moderno, ideale come introduzione alla band e uno dei migliori live rock di sempre.

venerdì 28 settembre 2012

D. l'alcolizzato

Prendemmo D. in squadra perche' ci mancava un elemento. Era un conoscente di J. ma di vista lo conoscevamo piu' o meno tutti. Alla prima partita D. si presento' visibilmente alticcio. Gioco' malissimo e perdemmo. Alla seconda partita D. era completamente ubriaco, giocavamo praticamente con un uomo in meno. Perdemmo. Decidemmo di dargli un'ultima possibilita' ma alla terza partita D. era in condizioni pietose, a stento si reggeva sulle gambe e ogni sua palla veniva inesorabilmente regalata agli avversari. Inutile dire che perdemmo ancora. J. stesso quella sera disse a D. di non preoccuparsi di venire la prossima volta. Dopo un paio di settimane D. mori', e non era una morte inaspettata, egli da tempo sapeva che la sua ora era vicina. Non lo sapro' mai ma secondo me D. ha voluto passare gli ultimi giorni della sua vita facendo le cose che piu' gli piacevano: bere e giocare.

lunedì 20 agosto 2012

Un Paese vecchio

Ora, qui scado nel banale: il problema principale dell'Italia e' che e' un Paese vecchio, stantio, bloccato, incapace di mettersi in moto per crearsi un futuro migliore. Sono tornato per due settimane nella mia citta' natale, Matera, nel Mezzogiorno piu' profondo e spiccato, e purtroppo non ho notato niente che mi facesse sperare in un cambiamento. Ovviamente in quella zona tutto pare amplificato, vuoi per l'eta' media abbastanza alta, vuoi per la quasi totale assenza delle istituzioni, vuoi per la mancanza di contatti con il mondo esterno. D'altronde questo immobilismo si nota dalle piccole cose: dalle resistenze nell'accettare i diritti per le coppie di fatto, o semplicemente da quanti vorrebbero Del Piero ancora alla Juve, o da quelli che auspicano un ritorno alla lira (ne ho incontrati). Una citta' in cui la gente si gira a guardarti se stai parlando al telefono in inglese, figuriamoci come reagirebbe alla presenza di uno straniero. E purtroppo ho avuto la malaugurata idea di portarci la mia compagna, la quale non potrebbe essere piu' mista di cosi'. A parte gli sguardi fissi della gente, inclusi i miei parenti, cio' che piu' l'ha infastidita e' stata l'impossibilita' da parte di questi di relazionarsi con lei. Il termine "xenofobia" indica la paura dello straniero, ed e' stato proprio quello che ha avvertito. Non un sorriso, non una domanda a chiederle cosa fa e cosa non fa. Lei e' una donna estremamente tollerante quindi non se l'e' presa troppo ma mi ha chiesto come potrebbe mai portare i suoi genitori, un afro-americano ed una coreana di nascita, in un posto del genere. Ho avuto la sensazione di essere fra persone incapaci di proiettarsi verso il futuro, ancorati ad una realta' ferma ed immutabile, spaventati dall'idea di qualcosa di diverso. Insomma non in grado di aprire la propria mente neanche quando hanno trovato la porta aperta.

lunedì 30 luglio 2012

Perche' sono favorevole al matrimonio tra cattolici

Sono completamente favorevole al matrimonio tra cattolici. Mi pare un errore e un’ingiustizia cercare di impedirlo. Il cattolicesimo non e' una malattia.
I cattolici, nonostante a molti non piacciano o possano sembrare strani, sono persone normali e devono godere degli stessi diritti della maggioranza, come se fossero, ad esempio, informatici od omosessuali.
Siamo coscienti che molti comportamenti e aspetti del carattere delle persone cattoliche, come la loro abitudine a demonizzare il sesso, possono sembrarci strani. Sappiamo che a volte potrebbero emergere questioni di sanita' pubblica, a causa del loro pericoloso e deliberato rifiuto all’uso dei profilattici. Sappiamo anche che molti dei loro costumi, come l’esibizione pubblica di immagini di torturati, possono dare fastidio a tanti. Pero' tutto cio' risponde piu' ad un’immagine mediatica che alla realta' e non e' un buon motivo per impedire loro il diritto al matrimonio.
Alcuni potrebbero argomentare che un matrimonio tra cattolici non e' un vero matrimonio, perche' per loro si tratta di un rito e di un precetto religioso assunto davanti al loro dio, anziche' di un contratto tra due persone. Inoltre, dato che i figli nati fuori dal matrimonio sono pesantemente condannati dalla Chiesa cattolica, qualcuno potrebbe ritenere che – permettendo ai cattolici di sposarsi – si incrementera' il numero dei matrimoni “riparatori” o volti alla semplice ricerca del sesso (proibito dalla loro religione fuori dal matrimonio), andando cosi' ad aumentare i casi di violenza familiare e le famiglie problematiche. Bisogna pero' ricordare che questo non riguarda solo le famiglie cattoliche e che, siccome non possiamo metterci nella testa degli altri, non possiamo giudicare le loro motivazioni.
Inoltre, dire che non si dovrebbe chiamarlo matrimonio, ma in un’altra maniera, non e' che la forma, invero un po’ meschina, di sviare il problema su questioni lessicali del tutto fuori luogo. Anche se cattolici, un matrimonio e' un matrimonio e una famiglia e' una famiglia! E con questa allusione alla famiglia, passiamo all’altro tema incandescente, che speriamo non sia troppo radicale: siamo anche favorevoli a che i cattolici adottino bambini. Qualcuno si potra' scandalizzare. E' probabile che si risponda con un’affermazione del tipo: “Cattolici che adottano bambini?!? I bambini potrebbero diventare a loro volta cattolici!”.
A fronte di queste critiche, possiamo rispondere che e' ben vero che i bambini figli di cattolici hanno molte probabilita' di diventare a loro volta cattolici (a differenza dei figli degli omosessuali o degli informatici), ma abbiamo gia' detto che i cattolici sono gente come tutti gli altri. Nonostante le opinioni di qualcuno e alcuni indizi, non ci sono tuttavia prove che dimostrino che i genitori cattolici siano meno preparati di altri a educare figli, ne' che l’ambiente religiosamente orientato di una casa cattolica abbia un’influenza negativa sul bambino. Infine i tribunali per i minori esprimono pareri sulle singole situazioni, ed e' precisamente loro compito determinare l’idoneita' dei possibili genitori adottivi. In definitiva, nonostante l’opinione contraria di alcuni, credo che bisognerebbe permettere ai cattolici di sposarsi e di adottare dei bambini.
Esattamente come agli informatici e agli omosessuali.

Franco Buffoni
da “Laico alfabeto in salsa gay piccante”
Transeuropa, 2010

giovedì 26 luglio 2012

Italia: la violenza che viene?

L’anno che comincerà il prossimo autunno potrebbe essere tra i più violenti che l’Italia abbia sperimentato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Lo sarà dal punto di vista della violenza fisica, e allora – ammesso di non ritrovarci troppo impegnati a sopravvivere nella guerra tra poveri di cui siamo la parte privilegiata, guerra che da condominiale si sarà fatta nel frattempo rionale, poi cittadina – noi miserabili di buona volontà, specie se mossi da spirito cristiano, dovremo cercare di impedire che venga ucciso Luca Cordero di Montezemolo (provando a dimenticare l’intervista in cui Cesare Romiti, parlando con Minoli, lo accusa di essersi venduto gli appuntamenti con Gianni Agnelli mentre lavorava alla Fiat), dovremo salvare la vita del piccolo Oceano Elkann, la vita di Ignazio La Russa e di suo figlio Leonardo Apache (ricordando che il padre di Ignazio, Antonino, ex segretario del Partito Nazionale Fascista di Paternò, ebbe salva la vita perché, dopo essersi fatto catturare dagli inglesi in Africa, non ricevette da questi lo stesso trattamento previsto nei campi di lavoro gestiti dalla parte politica a sé amica), di Orlandina, la moglie di Sergio Marchionne (e dei due figli Alessio Giacomo e Jonhatan Tyler), nonché impedire che Massimo D’Alema venga aggredito per strada (stesso sforzo per Giulio Tremonti e per sua moglie Fausta Beltrametti, cercando di dimenticare che quest’ultima è andata in pensione a trentanove anni, avendo ormai riscosso ben più dei contributi versati) e Walter Veltroni durante la presentazione di un suo libro, oltre a impedire che Michel Martone, attuale viceministro del Lavoro e delle politiche sociali (senza farci scalfire dal ricordo di suo padre, già giudice della sezione “lavoro” del Tribunale di Roma nonché membro del CSM) venga aggredito in piazza Montecitorio da un senzatetto che cerchi di soffocarlo col topo morto che ancora non rappresenta il pasto principale di nessuno, ma forse lo sarà, e nell’attesa prestato a fini apotropaici.
[...]
È chiaro, insomma, che non alle forze dell’ordine e non a compagini politiche o governative deve essere dato merito per un conflitto sociale non ancora esploso in modo così efferato, ma a chi per adesso non ha raccolto la prima pietra.
[...]
Quindici anni fa (era il 1997), fresco di Laurea in giurisprudenza, frequentai a Milano un corso in tecniche editoriali. (...) Alla seconda lezione da lei tenuta, la signorina Magnifiche Sorti ci illustrò gli scenari che, anche in campo editoriale, la rivoluzione digitale era sul punto di spalancare, specie per tutti noi in procinto di affacciarci sul mondo del lavoro.
“Ragazzi”, disse la signorina Magnifiche Sorti, “fino a pochi anni fa noi in casa editrice impaginavamo secondo i sistemi tradizionali di fotocomposizione. Ma voi non saprete nemmeno cosa significa, impaginare tradizionalmente un libro. Né lo saprete mai, perché i libri vengono adesso impaginati usando un programma sofisticatissimo che si chiama QuarkXPress. (...) Ebbene: così facendo, abbiamo calcolato in casa editrice, riusciamo a risparmiare circa il 35/40% del tempo”.
A questo punto, nel silenzio generale dell’aula – da cui venni colpevolmente contagiato –, un silenzio stupefatto e quasi visibile, si sollevò una mano. Era la mano di una studentessa. (...) La ragazza alzò la mano, puntando molto seria (anzi, si sarebbe detto che era proprio arrabbiata) la signorina Magnifiche Sorti.
“Posso farle una domanda?”
“Prego, dimmi pure”.
“Ma a voi in casa editrice vi pagano il 35% in più?”
“No”.
“Lavorate il 35% di meno a parità di stipendio?”
“No, anzi, c’è il caso che lavoriamo anche di…”
“Ma allora, mi scusi, il vantaggio dove sarebbe?”
[...]
La signorina Magnifiche Sorti produce il 35% in più a parità di lavoro rispetto a quanto produceva prima dell’arrivo della rivoluzione digitale. Il problema è che, dopo l’arrivo della rivoluzione digitale (dopo che la fase iniziale della suddetta rivoluzione è finita, cristallizzando nelle nostre vite abitudini che fino a poco fa non erano così conclamate, tanto che ce ne accorgiamo bene solo ora, iniziando a chiamarle col loro nome) la signorina Magnifiche Sorti è anche arrivata a destinare all’attività lavorativa più tempo di prima, un buon 30% in più, sebbene frazionato (e meno produttivo rispetto alle normali otto ore lavorative). La conclusione è che la signorina Magnifiche Sorti lavora più di prima, produce circa il 40-45% in più rispetto a quanto non facesse, ma a parità di retribuzione quando va bene. Quando va male, cioè quasi sempre, con un potere d’acquisto ridotto rispetto a 15 anni fa. Chi si avvantaggia di questa situazione?
[...]
Ebbene, rispetto all’industria libraria basta fare un gioco semplice. Basta vedere, per i grossi gruppi editoriali, la busta paga di chi in Italia ha scoperto, riscoperto o importato i libri (cercando di fare una media ponderata tra prestigio e ritorno economico) di Dan Brown, Roberto Saviano, Philip Roth, J.K. Rowling, Cormac McCarthty ecc. (via via la busta paga dei redattori che se ne sono presi cura, dei traduttori, degli uffici stampa che ne hanno fatto parlare in giro etc.) e confrontarla con lo stipendio dei top manager dei grossi gruppi editoriali. La sproporzione è il segno dei tempi.
Per ciò che riguarda Mondadori, per esempio, alla voce “compensi corrisposti a direttori generali e dirigenti con responsabilità strategiche nel 2011″, in relazione al suo AD Maurizio Costa si può leggere on line: “Emolumenti per la carica (1 milione e 10mila euro), benefici non monetari (25mila e 580 euro), bonus e altri incentivi (480mila euro), altri compensi (1 milione 207mila 205 euro)”.
[...]
Le sproporzioni sono sin troppo note, ma una bella rinfrescata non fa male. Quattro esempi sulle centinaia di migliaia a nostra disposizione.
Vittorio Valletta, AD Fiat fino al 1966, guadagnava venti volte i suoi operai. Sergio Marchionne, oggi, guadagna 435 volte lo stipendio medio di un operaio Fiat.
In una città come Roma, nel 1965, avendo come parametro lo stipendio medio di un impiegato statale e un appartamento di 65 mq a San Giovanni, per acquistare casa erano necessarie 6,8 annualità del suddetto stipendio. Oggi ne servono 19.
Diego Armando Maradona, nel 1984, venne acquistato dal Napoli per una cifra che, riattualizzata, è pari circa a 15,09 milioni di euro. Nel 2010 il Real Madrid acquistò Cristiano Ronaldo per circa 94 milioni di euro. Per gli ingaggi dei top players è accaduto nel tempo qualcosa di molto simile. Gli stipendi dei magazzinieri di Napoli e Real non hanno visto, in proporzione, un aumento del 600%.
Il debito greco (che ha distrutto vite, famiglie, e sta tenendo più di un continente col fiato sospeso, cioè sta causando gravi danni materiali a decine di milioni di persone, e via via consistenti danni per la salute mentale di qualche centinaio di milioni) è pari circa a 355 miliardi di euro. I patrimoni privati dei dodici uomini più ricchi del mondo, sommati tra di loro, danno una cifra pari a 362 miliardi di euro circa.
[...]
Fa parte delle regole condivise – una condivisione scaturita tuttavia dallo scontro con opposte e spesso giustificate tensioni – degli ormai scalfiti regimi democratici (quelli nati o rinati a partire dalla seconda metà del Novecento) prevedere che una maggiore parte di ricchezza vada a chi (per talento, voglia, dote, eredità, istruzione, capacità creativa o organizzativa) dia un contributo percepito come più consistente rispetto ad altri giocando nel medesimo campo di riferimento. Riconosciamo in Sergio Marchionne una capacità organizzativa e strategica aziendale migliore di un metalmeccanico. Cristiano Ronaldo fa sognare i tifosi molto più di un calciatore di serie C o dell’anonimo magazziniere che pure, partecipando ad un lavoro collettivo, contribuisce a tenere in piedi il Real Madrid CF. Gli esempi sono innumerevoli. Ma in un sistema di risorse limitate, fino a che punto può aprirsi il gap tra Marchionne e un suo operaio (tra Cristiano Ronaldo e il magazziniere di una squadra di serie C, tra uno sportellista della BNL e il ceo di Goldman Sachs Lloyd Blankfein ecc. ecc.) senza distruggere il principio democratico (ma prima ancora civile e religioso) di dignità umana che nessuno di questi privilegiati si sognerebbe mai di sconfessare pubblicamente pur calpestandolo ogni giorno per il semplice fatto di esistere nel contesto in cui si è?
Formalmente un limite all’accumulazione di ricchezza e alla sproporzione tra condizioni di vita non è previsto in nessuna carta democratica, ma proprio il fatto che non ci sia (e che quindi, in teoria, dati a 100r la ricchezza disponibile e a 1000x gli abitanti di un paese, un x potrebbe per assurdo – assurdo? – accaparrarsi 99r riducendo gli altri in una situazione di semischiavitù) crea in ogni sistema democratico la falla ideologica che potrebbe determinarne il crollo pur nella formale sopravvivenza, come in molti paesi sta iniziando ad accadere in forma blanda. Chiunque pensi che non sta accadendo, rifletta non sulla geopolitica ma su cosa è diventata la propria vita negli ultimi dieci anni – e anche qui, non la vita privata spacciata pubblicamente per altro da sé a fini di sopravvivenza, ma quella intima e difficilmente confessabile.
Di questo terrificante spostamento di ricchezza (cioè di valori), presi come siamo dalle nostre vite, non ci saremmo resi conto con un tale contraccolpo emotivo se a un certo punto il gioco non avesse mostrato la corda con l’esplosione della crisi. La quale ha semplicemente reso conclamato un processo in atto da alcune decine d’anni.
A proposito della vera natura di questa crisi, o almeno di certi suoi aspetti, come ha più volte ricordato un attento studioso dei processi economici come Luciano Gallino: a) “gli enti maggiormente indebitati, in America, ma anche in Europa, sono le banche. In quasi tutti i paesi il debito privato delle banche supera largamente il debito pubblico. Il massimo è toccato dalla Gran Bretagna, in cui il debito privato delle banche ammonta al 600% del pil, mentre quello pubblico è del 60%. La politica, dopo aver aperto tutti i possibili varchi alla sregolatezza della finanza, ha provveduto a salvare le banche. In totale i versamenti diretti per salvare le banche – quelle irlandesi, quelle spagnole, quelle inglesi – e le garanzie versate a vario titolo, che sono soldi che non puoi usare ad altri fini, ammontavano a più di 4mila miliardi di euro. È allora che si sono scavati enormi buchi nei bilanci pubblici”, b) “Negli Stati Uniti i salari reali al di sotto della qualifica di foreman sono fermi o leggermente regrediti dal 1973. Ma anche l’Europa ha visto crescere a dismisura le disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Uno dei paesi più diseguali che esista in Europa, soprattutto se si guarda alla ricchezza, è la Germania. La Germania ha un coefficiente di Gini prossimo a 0,8-0,799. Se si tiene conto che il coefficiente 1 vuol dire che uno solo prende tutto, si capisce che si tratta di una disuguaglianza elevatissima”, c) “Una prima spiegazione, di ordine finanziario e tecnologico, è che i ricchi si sono arricchiti perché avevano superiori capacità professionali, più ampio accesso alla finanza, maggiori competenze tecnologiche e informatiche. Perciò hanno raggiunto un alto reddito addizionale e, alla fine, una notevole ricchezza. Quelli che avevano minori capacità professionali erano meno competitivi, hanno avuto salari stagnanti. È nata così una doppia convenienza. Quelli che avevano accumulato ricchezza avevano bisogno di investire in modo sicuro, di dare denaro in prestito. Le classi medie, le classi lavoratici, avevano bisogno di prestiti per comprarsi la macchina, la casa, per pagarsi le spese mediche. Si sono così combinati i due interessi. Con le invenzioni della finanza che abbiamo visto, trilioni di dollari sono stati prestati dal 10% più ricco al 40-50% meno abbiente”, d) “tra il 2011 e il febbraio 2012 la Banca centrale ha prestato alle banche europee oltre un trilione di euro, 1000-1040 miliardi. Le banche in parte hanno pagato i debiti che avevano nei confronti della Banca centrale, in parte li hanno usati per capitalizzarsi, con qualche piccolo prestito alle piccole e medie imprese, ma per oltre un terzo hanno comperato titoli di Stato, che rendono dal 3% di certi titoli francesi o tedeschi fino al 7-8% nel caso di titoli italiani, spagnoli eccetera… Loro alla Banca centrale pagano l’1%. Dovrebbe essere possibile, i cittadini dovrebbero chiedere, che prestiti del genere siano accessibili anche agli Stati. Se lo Stato italiano avesse un prestito anche solo di 40-50 miliardi all’1%, o magari allo 0,25%, vicino a 0, come fa il Giappone, le cose andrebbero meglio. L’interesse dovrebbe essere in ogni caso minore del tasso di sviluppo. Invece siamo al 5% pagato alle banche, che l’hanno preso all’1%”.
[...]
Se un uomo come Marchionne (lo ripetiamo, si tratta solo di un esempio) fosse minimamente consapevole del mondo in cui vive nonché magari anche un po’ intriso della migliore cultura occidentale (economica, civica, letteraria, religiosa, filosofica), inizierebbe a guardare con sospetto al famoso rapporto di 1 a 435.
Chiamiamoli dunque per praticità Signori 435.
Così d’accordo, il Signor 435 è più bravo di me a dirigere un’azienda, a giocare a pallone, a presiedere una casa di produzione cinematografica, a comporre una canzone, a progettare un edificio, a scrivere una legge, a piantare un chiodo nel muro, a inventarsi un software, a mettere a punto un algoritmo, a brevettare un’invenzione meccanica, a sintetizzare la molecola per un nuovo medicinale, a disinfestare una cantina, a progettare un derivato. Ma cosa, in virtù di questa maggiore capacità, può giustificare un reddito pari a 435 volte il mio se la mia unità non dà più alcuna possibilità di avere una casa in affitto, di pagare bollette e cartelle esattoriali, di comprare del cibo decente, di fare figli, di istruirli, di avere consumi culturali, di curarmi, di pagare i funerali dei miei genitori? E cosa soprattutto, nel Signor 435, può far difendere a spada tratta una simile diseguaglianza – con tutte le grandi sofferenze umane che ne derivano – se non una vita interiore totalmente preda (suo malgrado) della più antimoderna delle brutalità? E cosa infine desidera sotterraneamente (cosa evoca malgrado l’apparente buono stato di salute mentale) questo tipo di brutalità se non la violenza della controparte?
I Signori 435 sono troppo poco in contatto con se stessi per rendersene conto, ma tutto nel loro discorso invoca la barbarie. Aiutiamoli a smettere o sarà troppo tardi.
[...]
A questo punto del discorso, spero che mi si sarà perdonato l’attacco quantomeno bizzarro di questo pezzo. Avevo iniziato con l’obiettivo di salvare la vita di Luca Cordero di Montezemolo, Ignazio La Russa e altri Signori 435 per l’anno che verrà. Sono arrivato a questo punto del discorso. Ho tralasciato di citare l’ovvio, cioè il deficit di politica a livello mondiale, la spaventosa mancanza di leader in grado di risolvere rapidamente i problemi di cui stiamo parlando.
Non è certo un augurio ma un fatto, o meglio una disgrazia osservata in prospettiva unendo i punti sulla mappa: si avvicina sempre più il bivio oltre il quale le nostre società imboccheranno necessariamente la strada della schiavitù o quella della violenza. In un paese come l’Italia, con tutto quello che è successo negli ultimi anni, è in effetti sorprendente che le tensioni sociali non siano ancora esplose. Oltre che il buon senso, le hanno tenute a freno il vecchio familismo (ma adesso la marea sta salendo fino a toccare le riserve di padri e nonni, ora anche loro iniziano a perdere posti di lavoro, case, pensioni: si tratta di un ammortizzatore che inizia a propria volta a invocare aiuto), un triste amore per il particulare ormai ridotto all’osso, un servilismo endemico (ma i padrini adesso sono troppo occupati a salvare se stessi, e pazienza se si metteranno in salvo alleggerendosi di molti clientes).
Si profila davanti ai nostri occhi, insomma, un altro cambio di paradigma.
L’augurio per noi tutti è che un’alternativa venga messa a punto nel tempo non lunghissimo a disposizione.

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venerdì 29 giugno 2012

La Coscienza di Zeno - La Coscienza di Zeno (2011)

La Coscienza di Zeno e' una band italiana dedita ad un riuscito prog moderno di stampo italiano. Negli utlimi anni si e' assistito alla nascita di gruppi che piuttosto che cercare di "modificare" il rock progressivo contaminandolo delle influenze piu' disparate, hanno cercato di recuperare quella tradizione e riprendere il discorso da dove e' stato interrotto, alla fine degli anni 70 insomma. Il Tempio delle Clessidre e' uno di quei gruppi, pero' purtroppo cade nei tipici eccessi di maniera e pecca di originalita', come puo' facilmente accadere in questi casi. La Coscienza di Zeno invece riesce a proporre ottima musica senza scadere nel "gia' sentito". La band si forma a Genova nel 2007 e nella lunga gestazione che ha portato all'attuale formazione autrice di questo meraviglioso album, si sono susseguiti musicisti poi entrati a far parte o provenienti da altri gruppi quali Narrow Pass, Il Tempio delle Clessidre, Finisterre e Malombra, ma momento chiave della loro carriera e' stata l'entrata in scena del tastierista Stefano Agnini dalla band new wave Vico dell'Amor Perfetto, il quale ha portato nuova ispirazione e testi complicati e raffinati. Le canzoni presenti in questo album sono infatti rivisitazioni di pezzi scritti da Stefano in passato e scartati dalla sua band di origine, che di prog ne capiva evidentemente poco. I testi sono ovviamente ispirati all'opera di Svevo e parlano delle contraddizioni insite nell'animo umano; l'album possiede quindi quell'appeal intellettuale senza per questo risultare pretenzioso o noioso, inoltre la maiuscola prova vocale del cantante Alessio Calandriello rende le liriche piu' digeribili, permeandole di passione e solennita'. Completano la line-up Gabriele Guidi Colombi al basso, Andrea Orlando alla batteria, Davide Serpico suona la chitarra e Andrea Lotti le tastiere e la chitarra. Nonostante la lunghezza media dei brani, le partiture complicate e le tipiche torsioni musicali, il lavoro non risulta affatto ostico e si fa apprezzare sin dai primi ascolti, senza risultare mai stancante o eccessivo. La prima band che viene in mente come paragone e' sicuramente il Banco, ma anche i Metamorfosi, vuoi per la presenza di due tastiere vuoi per l'impostazione sinfonica di base, pero' gli elementi di novita' sono numerosi, si nota lo sforzo di rimanere il piu' possibile fedeli alla forma canzone, e di ampliare il sound con escursioni nel folk, jazz e hard.
Lo strumentale Cronovisione apre il disco: intro classica con bei duetti tastiere-chitarra, siamo vicini agli Yes se si ascoltano le parti di chitarra, al Banco se si fa caso alla maestosita' e dinamicita' delle due tastiere. Dopo 2 minuti e mezzo si sente una voce narrante, subito incalzata da un indovinatissimo solo di tastiere, che evolve e varia fino alla fine della canzone. Gatto Lupesco e' un brano molto atmosferico, aperto dall'intensa ed espressiva voce di Alessio: piano e voce si occupano dell'incipit, spettacolare, e dopo un paio di minuti il ritmo cambia, le tastiere salgono, ed e' piu' prog-rock italiano che mai. La restante parte e' una jam tastiere-basso-batteria, drammatica e malinconica, che ci regala altri momenti di grande lirismo, prima del finale che riprende il cantato di apertura. Nei Cerchi del Legno e' la traccia piu' lunga con i suoi 13 minuti, e dalla struttura inusuale, essendo per lo piu' strumentale, con la voce che fa capolino solo nella parte finale, e giocando sull'alternanza fra momenti solari e trionfanti ed altri introspettivi e meditativi. Comincia con un assolo di chitarra, corposo e rockeggiante, per poi rallentare e cedere le redini al pianoforte, che nuovamente rende la traccia molto atmosferica. In seguito tastiere e chitarra dialogano portando avanti il pezzo strumentale e tingendolo di dark e jazz. Tutta la canzone e' caratterizzata da duetti fra chitarra e piano, il cantato comincia solo al 9 minuto. Il Fattore Precipitante e' forse la traccia meno originale, ma per fortuna si assiste ad un'altra apprezzabile prestazione del cantante, che di fatto salva la canzone. Il Basilisco cambia registro e si sposta sul prog folk, con numerosi momenti acustici. Una fisarmonica si occupa dell'intro, poi parte la voce la quale, accompagnata esclusivamente da accordi di chitarra acustica, descrive un motivo molto malinconico e dolce. La canzone si vivacizza un po' in seguito pur risultando una ballata acustica per voce e chitarra, con la fisarmonica sullo sfondo. Un altro pezzo molto riuscito. Lo splendido strumentale Un Insolito Baratto Alchemico e' ora teso e nervoso, ora tranquillo e riflessivo, ora solenne. Chitarra elettrica, a tratti metal, e flauto introducono il pezzo in maniera hard, in seguito le tastiere, sempre accompagnate dal flauto, subentrano e prendono il controllo, mantenendo l'atmosfera inquieta e viva, salvo poi cambiare timbro e lanciarsi in un solo di piano classicheggiante e decadente. Il finale e' ripreso dalla chitarra elettrica che conclude una canzone magnifica. Acustica Felina, la traccia finale, riprende gli umori sinfonici del brano di apertura, con momenti corali e uno splendido solo di chitarra nel finale. Le tastiere aprono il pezzo, poi la batteria sale, voce e chitarra si intromettono e il pezzo decolla. Un'alternanza di momenti piu' hard e veloci e di aperture ariose rende questo un altro gran bel brano, ma, ancora una volta, degna di nota e' la prova del cantante, che affronta la complessita' dei testi adattandosi ai temi, risultando quindi pacato e gentile in certi frangenti, profondo e minaccioso in altri. In conclusione, pur pagando ovvio tributo alla tradizione prog italiana, La Coscienza di Zeno e' un lavoro di qualita', elegante, meticoloso, complesso, impeccabile dal punto di vista della produzione, e soprattutto viene dal cuore.

martedì 26 giugno 2012

Sono sempre piu' convinto che solo un cambiamento radicale potrebbe cambiare la situazione.

La partita della sinistra
«Il discorso sul capitalismo deve diventare subito la narrazione condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche». Il manifesto , 15 giugno 2012
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?
In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent'anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l'Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un'ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell'ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d'altro. Stupefacente è che si parli soltanto d'altro, forse nell'illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce? [...]
Questo vale a porre una domanda ai compagni non comunisti della sinistra di alternativa. Oggi (da diversi anni, in verità) è senso comune ritenere che il comunismo sia ormai un residuato bellico. Chi ancora si ostini a definirsi, nonostante tutto, «comunista» e a pensare in termini di classe e di sfruttamento del lavoro salariato è considerato un po' scemo o stravagante: comunque un tipo da lasciar perdere, perché non ha capito dove siamo e in che mondo viviamo, un po' come chi oggi andasse in giro coi pantaloni a zampa d'elefante.
Questo senso comune è diffuso anche a sinistra e la cosa non stupisce. Molte ragioni aiutano a spiegarla. La prima è che critiche al capitalismo su basi diverse dal classismo ce ne sono sempre state (anche di destra, del resto). Il capitalismo genera (o eredita ed esaspera) molteplici contraddizioni sistemiche e «strutturali» (non in senso marxiano). Distrugge l'ambiente, per esempio, e radicalizza i conflitti di genere. Benché l'analisi di queste contraddizioni rischi di rimanere monca se enucleata dal quadro di riferimento della «critica dell'economia politica» (cioè dall'analisi del modo di produzione come dispositivo-base della dinamica riproduttiva sociale), non è una novità che ci sia anche una sinistra anticapitalista non marxista né comunista.
Una seconda ragione la indica lo stesso Marx quando sostiene che «le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti». È il nòcciolo un po' ruvido di quella problematica che Gramsci indagherà in tutte le sue complesse articolazioni sotto il titolo di «egemonia». Insomma, nel rifiuto del comunismo pesa, forse, anche la subalternità all'ideologia dominante, che da vent'anni (dalla caduta del Muro) o trenta (dall'imporsi dell'egemonia neoliberista) viene trionfalmente dichiarando obsoleta la prospettiva della trasformazione nel segno della liberazione del lavoro dallo sfruttamento capitalistico. Un'altra ragione - senza offesa per nessuno, ma senza nemmeno eccedere in diplomazia - è l'opportunismo.
In generale il ceto politico evita il rischio di apparire poco attraente, o addirittura respingente, a causa di riferimenti ideologici caduti in disgrazia (in questo caso anche - occorre riconoscerlo - per le responsabilità gravissime, storiche, delle leadership che li hanno assunti come base o a pretesto delle proprie decisioni). Tanto più i politici tengono a evitare tale rischio se attestarsi sul terreno cruciale della critica del modello di sviluppo (cioè fondare la critica del presente sul terreno costitutivo dei rapporti di produzione) porta inevitabilmente a toccare nervi scoperti negli interlocutori con i quali si tratta di ragionare in vista di alleanze di governo o di coalizioni elettorali. Il discorso non è moralistico. Ma ci si dovrà pur chiedere, prima o poi, per che cosa si lavora.
È assai probabile che, muovendosi in questo modo, escludendo dal proprio orizzonte intellettuale e politico la critica del capitalismo, una parte della sinistra di alternativa riuscirà a salvarsi dallo sterminio politico al quale molti dei suoi attuali interlocutori l'hanno da lungo tempo destinata.
[...]
Ma le aspirazioni dei politici non dovrebbero mai prevalere sull'interesse sociale che essi intendono (e dichiarano di) rappresentare. E dovrebbero essere concepite in modo razionale (cioè non sul breve o brevissimo periodo). Un soggetto politico degno di questo nome non può, in altri termini, traguardarsi alla scadenza di una legislatura, decidendo il da farsi in base al calcolo delle probabilità di mandare in Parlamento qualcuno dei propri dirigenti. Sarebbe la più miope delle operazioni, mentre la società viene prendendo coscienza della radicalità della crisi in atto e dei pericoli che la sovrastano.
I segnali di questa presa di coscienza si moltiplicano. In tutta Europa (la forza di Syriza, e dei movimenti in Spagna, la crescita del fronte anti-fiscal compact in Irlanda, persino la vittoria di Hollande e le sconfitte elettorali della Merkel) e anche in Italia. Di questo parlano l'esplosione del fenomeno Grillo, il dilagare dell'astensionismo, le vittorie dei movimenti contro le privatizzazioni, la coraggiosa presa di parola della Fiom, alla quale i politici hanno risposto in modo ipertattico, reticente e omissivo.
Lo si è detto tante volte: siamo seduti su una polveriera, viaggiamo sul Titanic a poca distanza dall'iceberg. Ma ormai non c'è bisogno di Cassandre per sapere che non si tratta di esagerazioni. Per questo il discorso sul capitalismo - discorso concretamente politico, che evoca un'agenda di misure tese a ribaltare il dominio dei capitali sul lavoro e sulla società, e a restituire alla moneta la funzione di mediare socialmente la redistribuzione della ricchezza in modo da ridurre progressivamente la sottomissione del lavoro e di allargare la sfera della cittadinanza - deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo. Diversamente, non ci sarà scampo per nessuno. E nessuno, di fronte al disastro annunciato, potrà un domani rivendicare la propria pretesa innocenza.
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Il dio dello spread
Adesso è chiaro che il problema non è, non è mai stata la Grecia. Che anche se dalle urne è arrivato primo il partito degli obbedienti di Nea Democratia (gli stessi che hanno condotto Atene al disastro), non è stato fatto nessun passo avanti per risolvere la crisi dell'euro. E, al di là delle congratulazioni di maniera, anche la cancelliera tedesca Angela Merkel non deve essere troppo soddisfatta. Era chiaro pure agli orbi che la Germania stava cercando qualcunque appiglio per estromettere la Grecia dall'euro. Se la formazione di sinistra Syriza avesse ottenuto il primato, Berlino avrebbe avuto l'alibi che cercava per espellere Atene dall'unione monetaria e avviare il processo di messa in riga che auspica fin dall'inizio: commissariare o radiare tutti i paesi Pigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Ora invece Berlino, il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea si trovano in un bel guaio: non possono punire i greci per aver votato come gli veniva chiesto, ma non possono neanche «premiare» la Grecia colpevole e debitrice. E il voto non ha ridotto il debito né rinviato le scadenze delle rate.
Ecco perché i padroni dell'Europa si ritrovano punto e a capo, quasi impotenti, con però due mesi in più trascorsi e quindi con il sistema bancario della Spagna sempre più vicino al crac, pronto a trascinare l'Italia con sé.
Nel 2009 alla Germania sarebbero bastati 50 miliardi di euro per risolvere il problema alla radice: per fermare la speculazione, l'unica è far perdere denaro agli speculatori. Se i brookers che scommettevano contro l'euro ci avesso subito rimesso, non avrebbero proseguito negli attacchi. Ma ragioni elettorali, di convenienza finanziaria (lasciare alle banche tedesche e francesi il tempo di disincagliarsi dai Pigs), di strategia politica (usare la crisi dell'euro per serrare la presa franco-tedesca sull'Europa) ci hanno portato al punto in cui non basterebbero 2.000 miliardi per salvare l'euro, perché tutta l'economia di riferimento è ferma, con molti paesi in recessione gravissima. In Italia migliaia di piccole e medie imprese chiudono o vendono a ritmo accelerato. I privati convertono i propri beni in lingotti d'oro, gli assets vengono ritirati dalle banche e trasferiti all'estero: il clima è da «si salvi chi può».
Il problema dell'euro è sempre stato politico, non finanziario: non ci può essere moneta unica senza politica economica comune e questa non è possibile se non è gestita da un soggetto legittimo, cioè eletto a suffragio universale europeo. Ma ora non c'è tempo materiale per avviare la costruzione di un'entità politica «Euro» e - francamente - i popoli non ne hanno nemmeno la volontà, dopo il modo in cui l'euro li ha trattati e continua a punirli.
[...]
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mercoledì 20 giugno 2012

Soulmate

Oggi stavo parlando di cinema con la mia donna e le ho detto che non ho mai visto Star Wars. Mi ha detto che dobbiamo prenderci un giorno libero e guardare tutta la trilogia. Non sono mai stato cosi' innamorato in vita mia.

venerdì 11 maggio 2012

Salva - Left to burn (2007)

I Salva sono una giovane band svedese con tre dischi all'attivo dei quali questo Left to Burn e' il secondo. Il loro stile non e' niente di nuovo, ma un giusto mix di generi ben equilibrati tra loro. Questo album possiede gli ingredienti giusti per essere un gran lavoro senza necessariamente portare elementi di originalita' estrema, tecnica iperbolica, o qualunque cosa sia li' all'unico scopo di scioccare. Lunghezza media, parti equilibrate, scelte giuste per quanto riguarda gli stili da cui attingere, cioe' prog sinfonico, hard e folk, e grande ispirazione sono le caratteristiche principali dell'album in questione. La mente del gruppo e' il cantante Per Malmberg, che suona anche chitarra, tastiere, mandolino e percussioni, affiancato da Johan Lindqvist alle tastiere, Stefan Gavik alla chitarra, Fredrik Lindqvist al basso e Lasse Bolin alla batteria. Si comincia con No Greater Wrath: subito un grande attacco trascinato da tastiere e basso, presto incalzati dalla chitarra. La voce fa capolino solo verso il secondo minuto, e la canzone comincia a prendere forma: ritornello e strofa diventano riconoscibili ed apprezzabili. Verso meta' brano il ritmo cambia e i musicisti si lanciano in un pezzo decadente e malinconico, a spezzare completamente l'atmosfera. Voce e chitarra sono protagonisti principali ora. C'e' tempo per un'altra variazione sul tema prima di recuperare le note dell'attacco, opportunamente modificate, e chiudere cosi' il brano. 8 minuti sono volati via come se nulla fosse. Ord Ver.2 e' la prima ballata del disco: chitarra acustica e un lontano flauto delineano la melodia, la voce, in svedese, fa il resto. Brano dalla struttura semplice ma efficace, con le tastiere ad irrompere ed accelerare a cadenze regolari, e la chitarra che si ritaglia un solo verso il terzo minuto. La terza traccia, Dying Rose, e' la piu'lunga del lotto: voce e tastiere si occupano dell'apertura, che si mantiene nervosa e tesa, come se stesse li' li' per esplodere; solo dopo due minuti e mezzo si sente quello che sara' il ritornello portante di tutta la canzone, un motivo indovinato e orecchiabile. Questa e' infatti una delle tracce piu' pop dell'intero disco, nonostante i 10 minuti di durata. La voce e' protagonista principale, descrivendo melodie romantiche e rockeggianti, con le tastiere che le reggono il gioco. Dopo quasi 8 minuti di eccellente musica il brano si arresta, ed e' possibile sentire unicamente delle voci lontane, ma dopo un po' la musica incalza nuovamente, diventando sempre piu' forte fino a riesplodere e lasciare le redini ad un solo spettacolare di chitarra che chiude la piu' bella canzona dell'album. Clara Leaving e' un rock'n'roll robusto, e, come da tradizione, chitarra e voce sono in primo piano, alternando magistralmente momenti elettrici ad altri acustici, con un ritornello di nuovo indovinatissimo. Come la precedente traccia era chiusa da un solo di chitarra, questa e' chiusa da un solo di tastiere. Aska e' la seconda ballata del disco: aperta da flauto e chitarra classica, e' tutta basata su delicatissimi arpeggi di chitarra che dipingono un motivo dolce, romantico e vagamente triste, almeno fino a meta' canzone, poi, visto che di prog si tratta, il brano muta, si incattivisce, la chitarra diventa elettrica e le tastiere sopraggiungono. Intrecci di questi due strumenti, ben coadiuvati dalla sezione ritmica, sono ora al centro della scena, che poi lascia il posto all'acustica per la conclusione dell'unico brano interamente strumentale. Stained comincia con una chitarra che non puo' non ricordare il Medio Oriente, la quale evolve praticamente immediatamente in un riff aggressivo e corposo. Il brano poi si assesta sull'alternanza di momenti piu' hard, quasi metal, che costituiscono il ritornello, ed altri piu' pacati ma non per questo meno tesi, che invece fungono da strofe. Underneath e' la canzone conclusiva: flauto e chitarra acustica si occupano nuovamente dell'apertura, con un motivo dolce e malinconico. Dopo poco la voce si unisce al coro, rendendo l'atmosfera ancora piu' decadente. Umore che non si risolleva praticamente mai, ma la band ci gioca su abbastanza da rendere il brano interessante, grazie anche all'alternanza fra stacchi di tastiere e riff di chitarra elettrica, a spezzare i momenti acustici dai quali la canzone e' caratterizzata. Sarebbe la traccia piu' debole del lotto se a due minuti dalla fine non cambiasse completamente (sono questi cambiamenti che decidono le sorti di un disco e che mi hanno fatto amare questo genere musicale): un coro gotico/sinfonico ed un solo di tastiera a mo' di fisarmonica sono la degna conclusione di un grande disco. Sicuramente una delle migliori uscite per quanto riguarda il prog moderno, da ascoltare assolutamente.

venerdì 6 aprile 2012

I Treni all'Alba - 2011 A.D. (2011)

La musica, come la letteratura, la pittura, l'arte in generale, e' fortemente influenzata dalla realta' presente; le sue espressioni sono spesso conseguenza del periodo storico in cui si colloca e dei cambiamenti sociali e tecnologici ad esso relativi. Ogni artista e' figlio del suo tempo insomma. Il rock progressivo non fa eccezione, e in questi anni 0 e post 0 ha assunto forme nuove ed imprevedibili. Dal post-hard dei Black Bonzo al post-rock dei Carpet Knights, fino al post-folk degli italiani I Treni all'Alba (di questi tempi tutto e' post). E dovremmo andarne fieri della loro italianita'. Questi ragazzi sono musicisti davvero dotati e talentuosi, che sono riusciti a portare a compimento un linguaggio musicale nuovo, e saranno probabilmente considerati dei pionieri dai posteri. Insomma, il post-prog non esiste ancora ma si sta delineando. I Treni all'Alba partono dal folk, ma e' solo un punto di partenza, per approdare in terreni post-rock che spesso cedono alla melodia, senza disdegnare qualche episodio piu' elettrico o jazzato. Si' perche' i quattro torinesi altro non suonano che post-rock acustico, ed e' questa la loro grande trovata. Se qualcuno si e' mai chiesto come sarebbe un disco post-rock, con i suoi movimenti liquidi e dilatati, suonato con strumenti acustici, I Treni all'Alba sono la risposta. Il gruppo si forma nel 2002 da alcuni musicisti di estrazione punk, ovvero i chitarristi Paolo Carlotto e Daniele Pierini, il pianista Sabino Pace ed il batterista Felice Sciscioli. Come si nota, manca il basso, e infatti non ce n'e' bisogno, visto che la loro musica consiste soprattutto di intrecci chitarristici, indiavolati ora celestiali dopo, vivaci, melodici, caldi, mediterranei, e mai scontati. Il disco vive quindi di questi duetti, arricchiti dalla batteria, mai aggressiva, ed interventi pianistici ai quali pero' non e' mai concesso alcun protagonismo. Rock strumentale dunque, che mantiene vivissima l'attenzione grazie a continui cambi di tempo e spunti su spunti, riff dopo riff, uno piu' indovinato e bello dell'altro. E sta parlando uno a cui non piacciono generalmente gli album strumentali, specialmente quelli guitar oriented. Dopo un primo album intitolato Folk Destroyers (2008), molto bello anche se troppo tendente al jazz in certi frangenti, la band stupisce tutti con questo 2011 A.D., disco riuscitissimo sotto ogni punto di vista. Impossibile ed inutile descrivere ogni singola traccia, viste le innumerevoli intuizioni che ciascuna contiene, ed anzi controproducente, dato che il disco e' un collage di pezzi dinamici e senza soluzione di continuita', che va ascoltato tutto d'un fiato, anche perche' non dura neanche 40 minuti. Devo pero' necessariamente fare menzione di brani come Attila, Il Demone, Tempi Moderni? o Streghe, di una bellezza disarmante. Che altro dire, il prog e' piu' vivo che mai, sempre piu' underground e di tale condizione compiaciuto, e gli italiani, crisi o non crisi, sono fra i suoi migliori artefici.

mercoledì 28 marzo 2012

L'errore del bruco

C'è qualcosa che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell'Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che "se il Paese non è pronto" lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l'Europa, come promette, o percepisce solo l'austerità sollecitata in agosto dall'Unione?
In realtà l'Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l'Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.
È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell'articolo 18 e altre misure d'austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni '30.
Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi ci preparerebbe un po'. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.
Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un'Europa politica, un'assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l'assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella).
È segno che ovunque c'è oggi sete di un'agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l'Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l'appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.
Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un'Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l'insicurezza del lavoro.
Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. "Nessun nemico a sinistra", era l'antico motto. Oggi a sinistra s'affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l'antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c'è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.
Il vero problema è che manca terribilmente l'aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d'altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l'essenziale resta dietro la porta. L'essenziale è l'Europa: l'ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge "l'ordine in casa" prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l'inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo  -  già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente  -  le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.
Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma "individui sparpagliati, che semplicemente 'si conoscono'" (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l'autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.
Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece  -  ha la forza dello status quo  -  ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado.
Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l'infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l'Unione la sognano soltanto. Quando esigono "più Europa" (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.
Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più.
Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un'altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l'automobile individuale.
Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un'abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l'Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l'ossigeno che ci evita l'asfissia. Monti ritiene che "non c'è bisogno" di Stati Uniti d'Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, "piccoli passi".
Come ricordano alcuni deputati, in un'interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un "processo costituente verso un'unione politica dei popoli europei", metta "al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita", proponga il ricorso a eurobond e project bond come "strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo". Non s'intravvede prontezza governativa, in materia.
Ulrich Beck ha dato un nome all'indolenza dei politici nazionali. La chiama l'"errore del bruco". L'umanità-bruco vive la condizione della crisalide, "ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare". Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell'800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l'alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.
La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.



Articolo orginale

giovedì 9 febbraio 2012

Sull'eta' delle donne

Chi come me e' piu' verso i 30 che verso i 20 sa di cosa sto parlando. Fino ad una certa eta' le donne dimostrano gli anni che hanno, perche' ne hanno pochi o non troppi. Da una certa eta' in poi decifrare il numero delle primavere vissute da una rappresentante del gentil sesso diventa impresa proibitiva, troppi mascheramenti si frappongono fra la realta' simulata e quella effettiva.
Colei con la quale divido la vita lavora la sera nei fine settimana, lasciandomi sovente in balia degli eventi. Quindi mi unisco ai miei amici Senza Donne, Cuore Solitario e Allupato Cronico e insieme andiamo per bar e locali, loro procacciando, io assistendo possibilmente in disparte. Purtroppo gruppi di maschi tendono a familiarizzare con gruppi di femmine, provocando l'inevitabile coinvolgimento del sottoscritto, che deve pur reggere loro il gioco. Niente di male, per carita', non mi dispiace affatto socializzare con nuove forme di vita femminili di tanto in tanto, mi fa sentire lusingato. Incontri che si concludono sempre con un nulla di fatto o al massimo un numero in piu' nella mia rubrica telefonica, sono uno che crede fermamente nella fedelta'.
Due settimane fa, di venerdi', un mio amico ferma due ragazze in un bar e punta una delle due. Io, da leale alleato quale sono, ho passato l'intera serata a parlare con l'altra ragazza. Le cose sono andate bene e questo mio amico ha guadagnato la promessa di rivederci tutti e quattro il venerdi' successivo. Quindi venerdi' scorso abbiamo ripetuto la stessa identica serata, che ho passato approfondendo la conoscenza della suddetta signorina. La quale e' alquanto interessante, recita a teatro ed ha vissuto in diverse parti del Paese. Fossi stato single ci avrei fatto di sicuro un pensierino. Costei invece nutriva piu' di un pensierino nei miei confronti, vista la quantita' di messaggi che ho ricevuto dopo esserci scambiati i numeri. Ad ogni modo, ieri sera, mercoledi', esco e vado nello stesso bar. Al bancone c'era una signora, capelli grigi, rughe, vestiti larghi e trasandati. Ma c'era qualcosa in lei che mi sembrava familiare, assomigliava a qualcuno che conoscevo, persino le espressioni del viso mentre parlava col barista. Si', assomigliava alla ragazza che avevo visto venerdi' e l'altro venerdi'. Ci e' mancato poco che dicessi: "Ei, ma tu sei la mamma di Stephany!!". Quella era Stephany, e doveva essere molto vicina ai 50. Forse a causa del giorno infrasettimanale, forse perche' non aveva nessun appuntamento galante, quella sera sembrava aver trascurato il restauro.
Questo significa che in un universo parallelo io sono andato a letto con una cinquantenne e immagino la mia sorpresa la mattina successiva.
State in guardia gente.

venerdì 3 febbraio 2012

IQ - The Wake (1985)

Il progressive e' un genere musicale a se stante e, come tale, puo' essere suddiviso in differenti ere che hanno maturato a loro volta stili diversi. Proprio come il rock'n'roll, il metal, l'elettronica ecc. Se negli anni '60 abbiamo assistito a forme embrionali di prog, come la psichedelia, l'hard e lo space, gli anni '70 hanno portato a maturazione suddetti stili e proposto di nuovi. Gli anni '80 sono stati invece gli anni del neoprog, sorta di revival progressivo ma con differenze fondamentali rispetto al concetto classico. La stagione del prog settantiano finisce di fatto nel 1977, con la pubblicazione del primo album dei Sex Pistols e la diffusione massiccia di punk, disco, new wave ed elettronica, che seppelliranno nel dimenticatoio i gruppi progressivi, troppo ancorati ad un'idea di rock ormai fuori tempo massimo. Ma i fan di quei gruppi crescono e cominciano a suonare, cosi' nei primi anni '80 si assiste ad un fiorire di emuli e tribute band, soprattutto di gruppi quali Genesis, Yes e Pink Floyd. Queste tre band sono la "base" su cui si formera' il nascente stile. Tale stile preleva la parte piu' semplice del prog rock, per arricchirla di elementi nuovi e per porla in una diversa prospettiva. Ogni velleita' commerciale e' messa da parte in favore di una musica che mira piuttosto a far rivivere nei pochi ascoltatori quelle vecchie emozioni, quelle sensazioni cosi' care ai fan delle band dei '70. Quindi sottogeneri ostici come il jazz-prog, lo zehul o la scuola di Canterbury sono completamente tralasciati in favore del rock sinfonico-romantico, lo space rock o il flash rock. A cio' si aggiungono tratti tipici degli anni '80, cioe' la nascente elettronica e quei suoni patinati propri della generazione MTV che ora imperversava. Molti lo chiamano glam. Quindi soluzioni complicate e contorte sono completamente bandite, i testi si fanno piu' semplici ed immediati, i musicisti non hanno bisogno di essere dei mostri di tecnica, i brani, ora molto piu' brevi e radiofonici, hanno l'obiettivo di colpire l'ascoltatore al cuore piu' che al cervello. Rappresentanti del neoprog sono i genesisiani Marillion, i Pendragon, i Twelth Night, i Pallas di cui ho gia' avuto modo di parlare, e gli IQ, che attingono soprattutto dai Pink Floyd.
Il primo nucleo degli IQ e' riconducibile al 1977, anche se il gruppo si chiamava ancora Lens, ma i suoi componenti erano di fatto i futuri IQ, ovvero: il batterista Paul Cook, omonimo del batterista dei Sex Pistols, Tim Esau al basso, Mike Holmes alla chitarra, Martin Orford a tastiere e flauto ed il carismatico leader e cantante Peter Nicholls. I cinque credono in una possibile rinascita del progressive e con tale auspicio pubblicano con un budget bassissimo Tales from the Lush Attic, 1983, il loro esordio discografico. Pubblico e critica grida al miracolo e l'album vende tanto, spingendo la band in cima alle charts. Ma il successo dura pochissimo, infatti l'album successivo, The Wake, pur essendo persino migliore del precedente e, anzi, da molti considerato l'album capolavoro della band, coincide con l'esplosione dei Marillion e la pubblicazione del loro Misplaced Childhood, sul quale si concentra l'attenzione dei media. A questo punto, come capito' per i Genesis, avviene la scissione, ovvero il cantante Peter Nicholls decide di abbandonare. Come per i Genesis, i superstiti virano verso uno stile piu' semplice e commerciale, dalle alterne fortune. Ma a differenza della band del Surrey, il principale compositore e mente ispirata decide di tornare e riportare il gruppo ai suoi antichi splendori: Ever del 1993 contende a The Wake il titolo di miglior album degli IQ. Il resto e' storia, i ragazzi inglesi suonano e pubblicano album tutt'oggi, l'ultimo e' stato Frequency nel 2009.
The Wake e' un piccolo gioiello. Le principali fonti di ispirazione direi che sono Genesis e Pink Floyd, anche se la band riesce ad affrancarsene a sufficienza ed a proporre uno stile originale, caratterizzato da melodie ariose e solari, tappeti di tastiere che ci portano in galassie lontane, voce enfatica e teatrale. Il punto di forza e' l'orecchiabilita', la scorrevolezza, la grazia dei brani. Cio' che invece non ho particolarmente gradito e' una certa tendenza a diluire le tracce stesse, ad allungare intro ed outro quando non ce n'e' affatto bisogno. In particolare i finali sfumati che durano in eterno risultano abbastanza fastidiosi. I fade out sono fastidiosi di per se', figuriamoci quando sono trascinati per interi minuti. Fortunatamente cio' non intacca la bellezza generale di questo lavoro, neanche troppo lungo.
La prima traccia, Outer Limits, propone un inizio spaziale: basso e tastiere ci portano subito nelle profondita' degli abissi siderali. L'ingresso di batteria, chitarra e voce ci riportano un po' piu' in basso, anche se l'aria rimane rarefatta e l'atmosfera lontana. Traccia che trova subito i suoi binari e una melodia sufficientemente orecchiabile; scorre via con piacevolezza senza far pesare i suoi 8 minuti di durata, proponendo interessanti scambi chitarra-tastiere. Il finale guadagna in drammaticita' ed enfasi, rendendo chiare le intenzioni dell'album: puntare piu' sull'emozione che sulla tecnica. The Wake prosegue sulla stessa linea: tastiere sparate, voce enfatica, sezione ritmica presente e chitarra gilmouriana. La melodia e' di nuovo indovinata e gradevole. Con The Magic Roundabout si torna ad una traccia medio-lunga (8 minuti), e la band da' ancora il meglio di se' nella creazione di atmosfere lontane e sognanti, ma in qualche modo rassicuranti e solari. Canzone che accelera improvvisamente dopo poco, proponendo anche qualcosa di piu' movimentato, salvo poi tornare sui propri passi e delineare un diverso motivo melodico, irresistibile anch'esso. Melodia che cambia ancora prima della fine, regalandoci la canzone piu' cangiante e progressiva in senso stretto del disco. Corners e' una traccia che avrebbe potuto essere un capolavoro ma non lo e' per una discutibile scelta da parte della band. Il motivo e' semplicemente stupendo, indovinato e catchy, celestiale, rassicurante, luminoso. Purtroppo la traccia in pratica finisce dopo 4 minuti, rispettando canoni di sintesi spesso molto apprezzati dal sottoscritto, finiti i quali ci sono ben due minuti due di finale sfumato che rovinano tutto. Davvero un peccato. Widow's Peak comincia con una lunga intro di tastiera, leggermente malinconica, e si ravviva subito dopo con l'ingresso della voce, disegnando un'altra bella melodia. Canzone che vira verso la meta', viaggiando nuovamente verso terreni siderali, e canto che acquista drammaticita' e nervosismo. La seconda parte continua a giocare sugli stessi toni e colori della prima, pur cambiando completamente ritmiche, ma non si rivela altrettanto ispirata. The Thousand Days, senza variazioni di sorta, e' uno dei brani migliori del disco. Le caratteristiche principali sono sempre le stesse: space-rock unito a sinfonismi, voce enfatica, atmosfere tranquille e solari; questa canzone e' cosi' ben eseguita e ben scritta da risultare particolarmente piacevole. Headlong comincia in sordina: voce sommessa, leggeri accordi di tastiere e batteria, per poi vivacizzarsi leggermente e lasciarsi andare ad un assolo di tastiere, presto incalzato da uno di chitarra. Verso la meta' la traccia si arresta e ripropone il motivo iniziale, anche se ora l'enfasi della voce raggiunge picchi altissimi, senza per questo risultare stucchevole, pretenziosa o pacchiana. Chitarra e tastiere ricamano la parte finale portando cosi' un'altra perla a compimento. Il brano finale, Dans le parc du Chateau Noir, non apporta nessuna novita' in linea generale, solo la chitarra risulta un po' piu' in evidenza, con anche un pezzo acustico. Traccia particolarmente dominata da spazi ampi e tempi dilatati, nei quali si vanno ad innestare motivi di disarmante bellezza. E su questa disarmante bellezza si conclude un altrettanto meraviglioso album.

martedì 24 gennaio 2012

Perche' gli italiani sono cosi' deficienti?

17 anni con un pluripregiudicato al governo. Il vice era un tizio che andava in giro a mostrare il medio e il cui programma politico era cacciare stranieri e terroni. Gente salvata dalla galera usando il parlamento. Festini con minorenni. Papponi, puttane e figli di papa'. Figure di merda internazionali. Leggi ad aziendam. Manipolazione dell'informazione. Uso di denaro pubblico a scopi privati. Eliminazione dei diritti dei lavoratori. Grandi opere inutili ed irrealizzabili. Vuoto politico piu' assoluto. Imbalsamazione della societa'. Totale assenza di riforme. Ora che finalmente c'e' qualcuno che sta davvero provando ad aggiustare la situazione ecco che si incazzano. Certo lo sta facendo a modo suo, ma che vi aspettavate? Non mi pare che nel resto del mondo tiri quest'aria di socialismo. Forconi, onda d'urto, tutti indignati. Dov'eravate 15 anni fa?