giovedì 9 febbraio 2012

Sull'eta' delle donne

Chi come me e' piu' verso i 30 che verso i 20 sa di cosa sto parlando. Fino ad una certa eta' le donne dimostrano gli anni che hanno, perche' ne hanno pochi o non troppi. Da una certa eta' in poi decifrare il numero delle primavere vissute da una rappresentante del gentil sesso diventa impresa proibitiva, troppi mascheramenti si frappongono fra la realta' simulata e quella effettiva.
Colei con la quale divido la vita lavora la sera nei fine settimana, lasciandomi sovente in balia degli eventi. Quindi mi unisco ai miei amici Senza Donne, Cuore Solitario e Allupato Cronico e insieme andiamo per bar e locali, loro procacciando, io assistendo possibilmente in disparte. Purtroppo gruppi di maschi tendono a familiarizzare con gruppi di femmine, provocando l'inevitabile coinvolgimento del sottoscritto, che deve pur reggere loro il gioco. Niente di male, per carita', non mi dispiace affatto socializzare con nuove forme di vita femminili di tanto in tanto, mi fa sentire lusingato. Incontri che si concludono sempre con un nulla di fatto o al massimo un numero in piu' nella mia rubrica telefonica, sono uno che crede fermamente nella fedelta'.
Due settimane fa, di venerdi', un mio amico ferma due ragazze in un bar e punta una delle due. Io, da leale alleato quale sono, ho passato l'intera serata a parlare con l'altra ragazza. Le cose sono andate bene e questo mio amico ha guadagnato la promessa di rivederci tutti e quattro il venerdi' successivo. Quindi venerdi' scorso abbiamo ripetuto la stessa identica serata, che ho passato approfondendo la conoscenza della suddetta signorina. La quale e' alquanto interessante, recita a teatro ed ha vissuto in diverse parti del Paese. Fossi stato single ci avrei fatto di sicuro un pensierino. Costei invece nutriva piu' di un pensierino nei miei confronti, vista la quantita' di messaggi che ho ricevuto dopo esserci scambiati i numeri. Ad ogni modo, ieri sera, mercoledi', esco e vado nello stesso bar. Al bancone c'era una signora, capelli grigi, rughe, vestiti larghi e trasandati. Ma c'era qualcosa in lei che mi sembrava familiare, assomigliava a qualcuno che conoscevo, persino le espressioni del viso mentre parlava col barista. Si', assomigliava alla ragazza che avevo visto venerdi' e l'altro venerdi'. Ci e' mancato poco che dicessi: "Ei, ma tu sei la mamma di Stephany!!". Quella era Stephany, e doveva essere molto vicina ai 50. Forse a causa del giorno infrasettimanale, forse perche' non aveva nessun appuntamento galante, quella sera sembrava aver trascurato il restauro.
Questo significa che in un universo parallelo io sono andato a letto con una cinquantenne e immagino la mia sorpresa la mattina successiva.
State in guardia gente.

venerdì 3 febbraio 2012

IQ - The Wake (1985)

Il progressive e' un genere musicale a se stante e, come tale, puo' essere suddiviso in differenti ere che hanno maturato a loro volta stili diversi. Proprio come il rock'n'roll, il metal, l'elettronica ecc. Se negli anni '60 abbiamo assistito a forme embrionali di prog, come la psichedelia, l'hard e lo space, gli anni '70 hanno portato a maturazione suddetti stili e proposto di nuovi. Gli anni '80 sono stati invece gli anni del neoprog, sorta di revival progressivo ma con differenze fondamentali rispetto al concetto classico. La stagione del prog settantiano finisce di fatto nel 1977, con la pubblicazione del primo album dei Sex Pistols e la diffusione massiccia di punk, disco, new wave ed elettronica, che seppelliranno nel dimenticatoio i gruppi progressivi, troppo ancorati ad un'idea di rock ormai fuori tempo massimo. Ma i fan di quei gruppi crescono e cominciano a suonare, cosi' nei primi anni '80 si assiste ad un fiorire di emuli e tribute band, soprattutto di gruppi quali Genesis, Yes e Pink Floyd. Queste tre band sono la "base" su cui si formera' il nascente stile. Tale stile preleva la parte piu' semplice del prog rock, per arricchirla di elementi nuovi e per porla in una diversa prospettiva. Ogni velleita' commerciale e' messa da parte in favore di una musica che mira piuttosto a far rivivere nei pochi ascoltatori quelle vecchie emozioni, quelle sensazioni cosi' care ai fan delle band dei '70. Quindi sottogeneri ostici come il jazz-prog, lo zehul o la scuola di Canterbury sono completamente tralasciati in favore del rock sinfonico-romantico, lo space rock o il flash rock. A cio' si aggiungono tratti tipici degli anni '80, cioe' la nascente elettronica e quei suoni patinati propri della generazione MTV che ora imperversava. Molti lo chiamano glam. Quindi soluzioni complicate e contorte sono completamente bandite, i testi si fanno piu' semplici ed immediati, i musicisti non hanno bisogno di essere dei mostri di tecnica, i brani, ora molto piu' brevi e radiofonici, hanno l'obiettivo di colpire l'ascoltatore al cuore piu' che al cervello. Rappresentanti del neoprog sono i genesisiani Marillion, i Pendragon, i Twelth Night, i Pallas di cui ho gia' avuto modo di parlare, e gli IQ, che attingono soprattutto dai Pink Floyd.
Il primo nucleo degli IQ e' riconducibile al 1977, anche se il gruppo si chiamava ancora Lens, ma i suoi componenti erano di fatto i futuri IQ, ovvero: il batterista Paul Cook, omonimo del batterista dei Sex Pistols, Tim Esau al basso, Mike Holmes alla chitarra, Martin Orford a tastiere e flauto ed il carismatico leader e cantante Peter Nicholls. I cinque credono in una possibile rinascita del progressive e con tale auspicio pubblicano con un budget bassissimo Tales from the Lush Attic, 1983, il loro esordio discografico. Pubblico e critica grida al miracolo e l'album vende tanto, spingendo la band in cima alle charts. Ma il successo dura pochissimo, infatti l'album successivo, The Wake, pur essendo persino migliore del precedente e, anzi, da molti considerato l'album capolavoro della band, coincide con l'esplosione dei Marillion e la pubblicazione del loro Misplaced Childhood, sul quale si concentra l'attenzione dei media. A questo punto, come capito' per i Genesis, avviene la scissione, ovvero il cantante Peter Nicholls decide di abbandonare. Come per i Genesis, i superstiti virano verso uno stile piu' semplice e commerciale, dalle alterne fortune. Ma a differenza della band del Surrey, il principale compositore e mente ispirata decide di tornare e riportare il gruppo ai suoi antichi splendori: Ever del 1993 contende a The Wake il titolo di miglior album degli IQ. Il resto e' storia, i ragazzi inglesi suonano e pubblicano album tutt'oggi, l'ultimo e' stato Frequency nel 2009.
The Wake e' un piccolo gioiello. Le principali fonti di ispirazione direi che sono Genesis e Pink Floyd, anche se la band riesce ad affrancarsene a sufficienza ed a proporre uno stile originale, caratterizzato da melodie ariose e solari, tappeti di tastiere che ci portano in galassie lontane, voce enfatica e teatrale. Il punto di forza e' l'orecchiabilita', la scorrevolezza, la grazia dei brani. Cio' che invece non ho particolarmente gradito e' una certa tendenza a diluire le tracce stesse, ad allungare intro ed outro quando non ce n'e' affatto bisogno. In particolare i finali sfumati che durano in eterno risultano abbastanza fastidiosi. I fade out sono fastidiosi di per se', figuriamoci quando sono trascinati per interi minuti. Fortunatamente cio' non intacca la bellezza generale di questo lavoro, neanche troppo lungo.
La prima traccia, Outer Limits, propone un inizio spaziale: basso e tastiere ci portano subito nelle profondita' degli abissi siderali. L'ingresso di batteria, chitarra e voce ci riportano un po' piu' in basso, anche se l'aria rimane rarefatta e l'atmosfera lontana. Traccia che trova subito i suoi binari e una melodia sufficientemente orecchiabile; scorre via con piacevolezza senza far pesare i suoi 8 minuti di durata, proponendo interessanti scambi chitarra-tastiere. Il finale guadagna in drammaticita' ed enfasi, rendendo chiare le intenzioni dell'album: puntare piu' sull'emozione che sulla tecnica. The Wake prosegue sulla stessa linea: tastiere sparate, voce enfatica, sezione ritmica presente e chitarra gilmouriana. La melodia e' di nuovo indovinata e gradevole. Con The Magic Roundabout si torna ad una traccia medio-lunga (8 minuti), e la band da' ancora il meglio di se' nella creazione di atmosfere lontane e sognanti, ma in qualche modo rassicuranti e solari. Canzone che accelera improvvisamente dopo poco, proponendo anche qualcosa di piu' movimentato, salvo poi tornare sui propri passi e delineare un diverso motivo melodico, irresistibile anch'esso. Melodia che cambia ancora prima della fine, regalandoci la canzone piu' cangiante e progressiva in senso stretto del disco. Corners e' una traccia che avrebbe potuto essere un capolavoro ma non lo e' per una discutibile scelta da parte della band. Il motivo e' semplicemente stupendo, indovinato e catchy, celestiale, rassicurante, luminoso. Purtroppo la traccia in pratica finisce dopo 4 minuti, rispettando canoni di sintesi spesso molto apprezzati dal sottoscritto, finiti i quali ci sono ben due minuti due di finale sfumato che rovinano tutto. Davvero un peccato. Widow's Peak comincia con una lunga intro di tastiera, leggermente malinconica, e si ravviva subito dopo con l'ingresso della voce, disegnando un'altra bella melodia. Canzone che vira verso la meta', viaggiando nuovamente verso terreni siderali, e canto che acquista drammaticita' e nervosismo. La seconda parte continua a giocare sugli stessi toni e colori della prima, pur cambiando completamente ritmiche, ma non si rivela altrettanto ispirata. The Thousand Days, senza variazioni di sorta, e' uno dei brani migliori del disco. Le caratteristiche principali sono sempre le stesse: space-rock unito a sinfonismi, voce enfatica, atmosfere tranquille e solari; questa canzone e' cosi' ben eseguita e ben scritta da risultare particolarmente piacevole. Headlong comincia in sordina: voce sommessa, leggeri accordi di tastiere e batteria, per poi vivacizzarsi leggermente e lasciarsi andare ad un assolo di tastiere, presto incalzato da uno di chitarra. Verso la meta' la traccia si arresta e ripropone il motivo iniziale, anche se ora l'enfasi della voce raggiunge picchi altissimi, senza per questo risultare stucchevole, pretenziosa o pacchiana. Chitarra e tastiere ricamano la parte finale portando cosi' un'altra perla a compimento. Il brano finale, Dans le parc du Chateau Noir, non apporta nessuna novita' in linea generale, solo la chitarra risulta un po' piu' in evidenza, con anche un pezzo acustico. Traccia particolarmente dominata da spazi ampi e tempi dilatati, nei quali si vanno ad innestare motivi di disarmante bellezza. E su questa disarmante bellezza si conclude un altrettanto meraviglioso album.