mercoledì 21 novembre 2012

Ache - Green Man (1971)

E' sempre un gran piacere scoprire band semisconosciute, sperdute in Paesi non generalmente famosi per la produzione musicale, ma in grado di sfornare album come quello in questione. La quantita' di lavori sepolti nell'underground prog dalla fine degli anni 60 fino all'inizio dei 70 e' sconfinato e sa regalare gemme di rara bellezza ai suoi pazienti minatori. Gli Ache sono una band danese nata sul finire dei '60 e autrice di quattro album (seppur uno non progressivo) fra il 1970 ed il 1977. Sembra suonino ancora in giro ma non hanno mai pubblicato piu' nulla da allora. Personalmente ho apprezzato molto questo album, vario, breve e senza punti deboli sostanzialmente. Lo stile e' molto late sixties, soprattutto nelle liriche, infarcite di riferimenti alla societa' e trip psichedelici, con una  netta tendenza verso l'hard, che si tinge spesso di space e sinfonismi. La parte del leone la fanno le tastiere, anzi un grande e grosso organo hammond, che a tratti ricorda lo stile di Ray Manzarek, con la chitarra non sempre protagonista, ma quando lo e' sfoggia virtuosismi spettacolari. La band e' composta da Torsten Olafsson a  basso  e  voce, Peter Mellin ad organo, piano e vibrafono, Finn Olafsson (che ai tempi aveva appena 17 anni) alla chitarra, Glenn Fischer a batteria e percussioni. L'album comincia con una traccia lunga (7 minuti), Equatorial Rain: intro di voce ed organo, drammatica e glaciale, con rumore di pioggia in sottofondo ed incalzanti arpeggi di chitarra. Dopo due minuti e mezzo basso e batteria irrompono mentre l'organo sale in cattedra con un riff hard rock molto bello, ancora duettando alla grande con la voce. Prima del finale viene riproposto ancora una volta il motivo iniziale, con tutto il suo carico atmosferico teso e pesante. Sweet Jolly Joice e' una breve traccia dominata dalle tastiere e dal basso, con la voce che piu' che altro narra ed annuncia. Perfetto esempio di come un brano semplice possa raggiungere vette di magnificenza. Un solo di chitarra a meta' canzone contribuisce ad arricchire ulteriormente la struttura. The Invasion presenta ancora una bella intro organistica, fra hard e space, prima che parta il coro prima e la chitarra poi. Quest'ultima si esibisce in evoluzioni acide che rendono questa la traccia piu' psichedelica del lotto. La voce fa capolino solo dopo 3 minuti e mezzo, a rallentare improvvisamente un ritmo finora molto sostenuto, e cambiando completamente il brano. La chiusura e' affidata invece alla chitarra, sempre molto lisergica. Con Shadow of Gypsy siamo al momento malinconico ed intimista: l'organo pennella colori decadenti, mentre il cantante si lascia andare alla nostalgia ed al rimpianto. Con l'ingresso del coro i toni si fanno ancora piu' melodrammattici, in seguito la chitarra si adegua all'andazzo generale, esibendo un altro ottimo assolo, ora molto piu' caldo e blues. Finale inaspettato, che vede protagonista un'insolita tromba, che solleva un pochino gli animi. La title track consiste di una intro di chitarra acustica, presto incalzata dall'elettrica. Quando subentrano il basso e le percussioni e' un gran sentire: atmosfere sixties, sembra di sentire i Kinks o anche i Caravan, note accoglienti e felici, atmosfere spensierate. Una canzone semplice ancora una volta ma con risultati strabilianti, ascoltare per credere, che non si fa mancare neanche i proverbiali coretti e l'onnipresente organo. Con Acheron e' stavolta il basso che si prende cura dell'introduzione, anche se la chitarra invade abbastanza presto, esibendosi in un solo ora molto rock, con le tastiere sullo sfondo a disegnare galassie lontane. Gradualmente i due strumenti si scambiano le parti, con la chitarra che va in loop e l'organo che diventa protagonista principale, per un grande effetto. La chiusura jazzy ci ricorda che siamo di fronte ad un album prog, il che implica varieta' di stili e sperimentazione. Infine We Can Work it out Working: ultima traccia, la piu' lunga (8 minuti), parte con chitarra ed organo che vanno spediti a delineare arie tese e nervose, salvo poi calmarsi un attimo con l'ingresso del basso e della voce, che dona ora un velo di malinconia. Il resto del brano gioca sull'alternanza di momenti piu' rock con la chitarra in primo piano, ed altri piu' romantici, con la voce invece principale interprete, senza tralasciare refrain tastieristici, momenti percussivi ed altre carinerie tipicamente progressive. Un lavoro di altissima qualita', che alla base hard/proto-prog aggiunge elementi psichedelici e pop sessantino, con qualche momento jazzato e sinfonico. Sono album come questi che mi spingono a continuare a cercare, che mi fanno sperare che ci sia ancora molto da scoprire.