venerdì 14 novembre 2014

Quintorigo - Rospo (1999)

I Quintorigo sono stati una giovane promessa della musica italiana, un gruppo di ragazzi decisi a portare una ventata di aria nuova nello stantio e asfittico panorama pop italiano. Era il 1999 e il loro intento e' fallito miseramente. Una della rare apparizioni di gruppi progressivi sul palco di San Remo, i Quintorigo stupirono tutti per la singolarita' della proposta, completamente differente dalle tipiche canzonette stereotipate e plastificate abituali dell'Ariston, dal punto di vista dei testi, dell'approccio musicale, della strumentazione, tutto insomma. Rospo, il brano proposto, valse loro il premio della critica, e grandi furono i proclami delle riviste e trasmissioni specializzate, annunciatrici dei messia che avrebbero rivoluzionato lo scenario popolare italiano. Ero al liceo, possedevo una copia del cd in questione in quanto andavo in classe con uno dei pochi proprietari di un masterizzatore della mia piccola citta', e per un fortunatissimo caso costui era anche un musicista e appassionato di prog, che quindi mi passo' l'album. Frequentavo tanti musicisti in erba in quel periodo, il clima che si creava in quei garage freddi, fumosi e puzzolenti era qualcosa di spettacolare; l'alcol, l'hashish, le ragazze, le prime esperienze in tutto, ovviamente era un periodo di grande entusiasmo, pero' ricordo che c'era sincera speranza e, perche' no, aspettativa, che quella apparizione aliena sanremese potesse davvero cambiare qualcosa. Forse eravamo troppo ingenui ed intrippati con il prog. Ad ogni modo, i Quintorigo tornarono a San Remo l'anno dopo, per un altro tentativo di colpo di stato, guadagnando un deludente premio per il miglior arrangiamento, e persero gradualmente popolarita' con il passare degli anni. Originari della Romagna, la band nasce nel 1992, ed ha dato alle stampe cinque album in totale, escludendo live, raccolte e tributi; il primo album, Rospo, e' sicuramente il migliore, ma anche il secondo, Grigio, merita certamente un ascolto. Da Grigio in poi, siamo nel 2000, il cantante John De Leo abbandona il gruppo, che prova a mantenere inalterato lo stile ingaggiando diversi cantanti nel corso degli anni ma con risultati molto lontani dai fasti dei primi due dischi. I cinque ragazzi si proponevano come educatori del palato musicale italiano, intendevano introdurre l'ascoltatore medio a generi di musica piu' educati, raffinati, come la classica ed il jazz, ma rivestiti di ritmi piu' assimilabili, melodie piu' immediate, per risultare piu' digeribili al rozzo ed ignorante ascoltatore italiano. Un pop colto, una canzone leggera raffinata, una musica popolare aulica, questo volevano essere i Quintorigo, e sulla carta funzionava alla stragrande, peccato che il primo disco non abbia venduto molto, il secondo ancora meno, il successo commerciale e la popolarita' non sono mai arrivati, ed il gruppo, demoralizzato, ha rinunciato ai propri obiettivi. Con uno schieramento di tre archi, Andrea Costa al violino, Stefano Costa al violoncello e Stefano Ricci al contrabbasso, piu' un fiato, Valentino Bianchi al sax, e la summenzionata voce, la band romagnola propone un interessantissimo pop acustico, privo delle percussioni ma scandito dal ritmo del contrabbasso e della voce di De Leo, vero maestro del genere, con gli altri strumenti ad impersonificare il ruolo dei tipici strumenti rock come chitarra e tastiera. Inoltre il gruppo spazia fra vari generi, pur mantenendo i brani brevi ed in forma canzone, easy listening ed orecchiabili, come classica, jazz, funk, blues, presentando anche testi profondi, ironici, polemici, interpretati perfettamente da un grandissimo vocalist, che si ispira a Demetrio Stratos e suo degno erede. Basta ammirare l'immensa prova sul palco dell'Ariston. Il berlusconismo rampante che stava facendo in quegli anni strage di neuroni e terra bruciata intorno ad essi tramite la disintegrazione della cultura e di qualunque cosa avesse una vaga aurea intellettuale di certo non ha aiutato i nostri amici, anche se francamente penso sia stato davvero da ingenui pensare di sgretolare cosi' un sistema granitico ed inespugnabile che esiste in Italia da anni e sempre esistera'. Se n'e' discusso tanto, Fabio Zuffanti ci ha anche scritto un libro, nel nostro paese avra' successo e si ascoltera' sempre un certo tipo di musica perche' e' quello che piace agli italiani, o almeno alla maggior parte di essi, ne' piu' ne' meno. I Quintorigo avrebbero dovuto accontentarsi del loro pubblico e fare la musica che sanno fare, ci sono tanti ammiratori innamorati dei loro primi album e che sono rimasti delusissimi nel veder precipitare cosi' un gruppo dal grandissimo potenziale e dallo stile unico. Ma poi chi sono io per dire cosa dovrebbe fare uno. Tornando all'album, la prima traccia, Kristo Si'! e' un funky di denuncia della religione, con John che ha un dio che non lo lascia ne' vivere ne' morire. Canzone trascinante, dal gran ritmo, originale e di impatto, maestosa la prova vocale. Si prosegue con Rospo, il brano di San Remo, e probabilmente miglior pezzo del disco. Le liriche innanzitutto, narranti di un rospo tramutato in uomo che pero' trova disgustoso l'ambiente in cui si trova ora, l'ipocrisia, la finzione, i meccanismi umani. E mi chiedo quanti degli spettatori che hanno assistito all'esibizione hanno colto il senso delle parole "moralita' formalita', disgusto, ipocrisia televisiva, conati". Musicalmente si tratta di una canzone molto melodica, pop, resa pero' particolare dall'utilizzo degli strumenti classici. La terza traccia, Nero Vivo, e' un attimino meno ariosa, piu' dark, ancora riuscitissima, ritmata, arricchita da un grande assolo di sax. Zapping, appena due minuti di lunghezza, strumentale, spazia fra vari generi, classica, jazz e anche un po' di folk. Sogni o Bisogni e' un altro pezzo ispiratissimo, grande incedere strumentale, a meta' fra funk e soul, con la voce che trascina il brano ed una perfetta prova di tutti i musicisti. Tradimento e' piu' lenta, vagamente malinconica, condotta ora dalla voce ora dal sax, altro bel pezzo. Deus Heures De Soleil e' molto interessante: voce distorta, violino e violoncello piu' aggressivi ed abrasivi nella strofa, toni ariosi e voce pulita nel ritornello, sicuramente un'altra delle tracce piu' riuscite del prodotto. Un'altra caratteristica della band in questione e' l'utilizzo di lingue diverse, soprattutto italiano, ma pure inglese e francese, anche nello stesso brano. Momento Morto e' piu' calmo, anche se non completamente rilassato, caratterizzato da un tappeto di archi su cui si innesta la voce di John, ed il violino suonato a mo' di chitarra elettrica nel ritornello. Il sax fa sempre un ottimo lavoro di ricamo e riempimento. Vi e' poi una cover di Heroes di David Bowie, completamente stravolta e reinterpretata dai nostri. In We Want Bianchi compare l'unica batteria, grazie all'ospite Roberto Gatto, che ne fa la canzone piu' rock del lotto: trascinata da intrecci di sax e violino, vagamente jazz e sudamericana, e' uno strumentale con il cantante che non parla ma vocalizza solo, ed e' uno spettacolo sentirlo usare l'ugola come uno strumento aggiunto. Chiude una versione dub di Kristo Si', particolarissima. Mi sembra doveroso chiudere il post con il video della loro esibizione in quel di San Remo, era il 1999, il declino della penisola italica era appena cominciato.

lunedì 20 ottobre 2014

Mars Hollow, King Crimson e altre cose

Un po' di tempo fa ho conosciuto un tizio ad una festa e dato che sono una persona estremamente interessante e carismatica, costui mi ha invitato al suo matrimonio che si e' svolto qualche settimana dopo. No, scherzo, non ho idea del perche' abbia voluto invitare me e Cynthia al suo matrimonio, immagino che semplicemente ci siamo capiti subito, ci siamo subito resi conto di avere parecchio in comune, come effettivamente e', non e' incredibile come con certe persone riesci subito a parlare ed essere te stesso e la conversazione scorre, mentre con altri proprio non si riesce ad imbastire uno straccio di dialogo? Ad ogni modo, nella sala da bowling dove abbiamo festeggiato il matrimonio c'erano ovviamente anche i suoi genitori e, fra una cosa e l'altra, viene fuori che suo padre suonava in una band prog, quindi non posso non andare a parlargli. Persona squisita e disponibile, mi dice di aver suonato nei Mars Hollow, band che effettivamente conosco, autori di un discreto prog sinfonico e due modesti ma dignitosi album fra il 2009 e il 2011. Lui e' John Baker, chitarrista e cantante, dallo stesso timbro vocale di Jon Anderson. Gli chiedo come mai la band si sia sciolta, e mi dice che gli altri membri del gruppo non hanno gradito il suo convogliare a nozze con Lisa LaRue, sua attuale consorte (che quindi va a presentarmi). A quel punto mi e' sembrato scortese chiedergli come mai ai suoi ex compagni di band non piaceva sua moglie (gli americani sono molto meno diretti rispetto a noi e molte delle domande che noi normalmente facciamo loro le considerano troppo personali), allora ho pensato di aspettare che fosse abbastanza ubriaco per poter quindi fargli sputare il rospo, pero' poi e' andata a finire che mi sono ubriacato io e mi sono completamente dimenticato di tutta questa storia. Il giorno dopo, pero', mi e' tornata in mente e ho scoperto che Lisa LaRue e' persino piu' famosa di suo marito nell'ambiente, ha suonato sia come solista sia in una band, ha avuto come compagni di gruppo gente come Don Schiff, John Payne, Ryo Okumoto, ed e' stata insignita piu' volte del titolo di miglior artista nativa americana. Ma pochi giorni dopo il mio nuovo amico mi confessa che sua madre e' stata una sorta di groupie del mondo progressivo, ha vissuto in Inghilterra per molti anni ed e' stata la donna di molti rocker durante i '70, con una speciale predilezione per i tastieristi, e li' mi mostra una foto di una giovanissima Lisa con un gia' attempato Keith Emerson. Quindi per colpa di questa sua reputazione, che tra l'atro risale a piu' di 40 anni fa, i Mars Hollow non hanno preso bene la decisione del loro leader. Roba da matti.
Sono anche andato al concerto dei King Crimson a San Francisco. Tralasciero' la parte relativa all'esibizione, dico solo che grande e' stata l'emozione nel vedere la mia band preferita dal vivo, soprattutto perche' mai e poi mai ci avrei sperato. Sono state due ore intense ed emozionanti, uno dei migliori concerti che abbia mai visto dal punto di vista tecnico e qualitativo, una soddisfazione che raramente ho provato. Se ora Peter Gabriel si riunisse ai Genesis e partissero in tour, potrei davvero morire dopo averli visti, non c'e' altro che devo fare in questa vita. Vorrei invece parlare della citta' di San Francisco, che mi ha stupito molto in positivo. Le citta' americane sono solitamente costruite a misura di macchina, i mezzi pubblici scarseggiano e la gente si muove quindi in macchina: Kansas City e' cosi', ma anche Los Angeles, Atlanta, Miami, Philadelphia, ecc. In queste citta' non c'e' il classico "passeggio" che abbiamo noi in Italia, la gente non cammina e si rinchiude nei locali. Citta' invece piu' simili al modello europeo sono New York, Chicago, probabilmente Seattle, e San Francisco: qui gli spazi sono piu' ristretti, a misura d'uomo, le distanze sono percorribili a piedi, i mezzi pubblici numerosi e largamente utilizzati, la gente va in giro a piedi e fa serata per la strada. Chicago e New York sono molto care e fredde, invece San Francisco, pur cara, ha il clima ideale, temperatura primaverile costante tutto l'anno. Inoltre la marijuana e' legale per uso terapeutico, l'uso ricreativo e' vicino ad essere legalizzato, e non e' raro vedere qualcuno che si accende una canna nel bel mezzo del via vai del centro. E nessuno si ferma a giudicarti. Infatti sono rimasto molto colpito dall'apertura di pensiero degli abitanti di San Francisco, dal numero di influenze e culture che caratterizzano questa zona, dove una persona su tre e' di origine asiatica (ho un debole per le ragazze asiatiche), dal numero di coppie e famiglie miste, dall'omosessualita' non vista come un demone da estirpare ma piuttosto un campo su cui investire, dal numero di ristoranti etnici dei tipi piu' disparati, i piccoli negozi alimentari, completamente assenti dove vivo io, che vendono cibo di qualita' controllata, dal numero di diverse culture che incontri in giro, dal fatto che a nessuno fregava niente se il mio accento era diverso! E poi, l'incredibile fermento culturale, gente a diffondere volantini a sfondo politico e sociale ad ogni angolo, artisti di strada, e tante altre cose. La prima sera l'ho passata al museo della scienza: c'era il dj a mettere musica e barman in ogni dove a darti cocktail mentre osservavi ed imparavi le robe scientifiche. Incredibile. E poi sono andato in spiaggia, ho visto spiagge bellissime e leoni marini, e scoperto che il nudismo e' tollerato sulle spiagge della California, non c'e' neanche bisogno di separazioni perche' il corpo umano altro non e' che una cosa naturale, e ho scoperto che voglio imparare a fare il surf. Insomma, ho deciso che fra un anno, un anno e mezzo, mi trasferisco a San Francisco.

domenica 28 settembre 2014

Lamanaïf - L'Uomo Infinito (2012)

E' un mesetto che ascolto questo album ogni giorno, a volte due volte al giorno. Erano anni che non mi capitava una cosa del genere. L'Uomo Infinito e' un lavoro particolarissimo, originale, che mal si colloca persino nel filone progressivo. I Lamanaïf prendono dal progressive l'approccio, la maniera di concepire la musica, multisfaccettata, cangiante, aperta a mille influenze, inoltre la teatralita' del cantante Esteban Vidoz avvicina ancor di piu' la band veneta al filone prog. E finalmente un cantante all'altezza, che aggiunge molto al suono, quasi lo trascina con se', mancanza cronica delle band italiane. La musica dei Lamanaïf e' impetuosa, di grande impatto, i musicisti non si risparmiano e non temono di affrontare stili pesanti, diversi e difficili da digerire. Il lavoro svolto dalle corde, chitarra e basso, e' impressionante, la batteria e' precisa ed udibile, ma mensione a parte merita la voce mutevole, robusta, presente, duttile, di un grandissimo Esteban Vidoz, il cui nome e la perfetta cadenza italiana fanno pensare essere un italiano di seconda generazione, cosa che mi fa molto piacere. Purtroppo non sono riuscito a trovare informazioni sul suo conto, ed anche la biografia del gruppo e' praticamente irreperibile. Dicevo, lo stile del cantante e' sicuramente influenzato da quello di Mike Patton, del quale ricorda certi esperimenti vocali, soprattutto del periodo Mr. Bungle e Fantomas, e l'uso della voce come strumento aggiunto, nel senso che alcuni suoni sono proprio riprodotti dall'ugola di Esteban, e questo e' solo uno dei caratteri peculiari del disco. Infatti ci sono massicce influenze crossover, Faith No More, ma anche Rage Against the Machine, insieme a stacchi nu-metal, punk e cori urlati; altre canzoni sono invece piu' inclini al post-rock, oserei dire ricordano qualcosa dei Ministri o anche Zen Circus. La componente prog e' da ricercare nell'hard italiano, soprattutto Biglietto per l'Inferno, ma e' molto vaga. Insomma, un connubio ideale di influenze piu' disparate che fanno la gioia di chi ama diversi stili, l'Uomo Infinito riesce ad essere molto fedele a questo ideale, presentando un lavoro conciso, senza sbavature, intenso, trascinante, da assaporare lentamente e con attenzione. E' un disco impegnato, che richiede numerosi ascolti, e che affronta temi difficili come i conflitti interiori, le maschere che ogni giorno indossiamo, il contrasto fra realta' ideale e realta' attuale, gli amori ossessivi e malati. L'obiettivo e' ambizioso ma la band mantiene le aspettative, sciorinando un sound fluido e scorrevole, senza momenti di tregua, con testi coinvolgenti e una grandissima prova del cantante che li rende ancora piu' carichi di pathos. Gli altri membri del gruppo sono Matteo Florian al basso, Simone Bianco alla chitarra e Simone Sossai alla batteria, davvero tutti bravissimi ed ispiratissimi. L'album e' diviso in dodici tracce tutte diverse fra loro, delle quali quindi val la pena fare una rapida rassegna. Si comincia con una intro, come da migliore tradizione: L'Ipnotico Salto e' un pezzo nervoso e breve per percussioni e chitarra distorta, si fa subito sul serio. La seconda traccia, Rane, sfocia naturalmente dalla intro ed e' il brano piu' prog, trascinato da un riff di chitarra hard che ricorda molto la tradizione italiana; impressione confermata dal tono e dallo stile della voce di Esteban. Brano bellissimo, rapido, pulito, energico. Chi a questo punto si aspetta che l'album continui su questi binari rimarra' letteralmente di stucco. Infatti il pezzo seguente, (In)Stabile e' molto vicino al punk, o comunque una qualche contaminazione post/punk, con una seconda voce, sempre impersonata da Esteban, che urla letteralmente. Ma il cantante ci regala un altro saggio della sua incredibile duttilita' nei due brani seguenti, Magnolia e la title track, contaminati da stili musicali come l'alternative o il post rock, stili ai quali il prog e' ancora poco avvezzo; canzoni romantiche, malinconiche, introspettive, cariche di significato. Hic et Nunc cambia ancora registro cominciando su binari punk e virando verso il crossover alla System of a Down nella parte centrale, con Esteban che quasi rappa per un attimo, e conclude come aveva cominciato in meno di tre minuti di canzone. Si prosegue con Girotondo, la traccia piu' lunga con i suoi sette minuti, brano mutevole, a tratti hard a tratti post, con un ritornello curioso in cui il cantante imita con la voce il rumore che fa il disco quando scratcha. Puzzle! e' un altro esempio della camaleonticita' dei Lamanaif, spaziando fra rock'n'roll, alternative, prog; tutto cio' rispecchiato nella parte vocale, dinamica e versatile. La seguente, Insonne, e' piu' romantica e decadente, triste, introspettiva, il ritmo cala per un attimo, ma la tensione e' viva, la drammaticita' e' forte nella parole e nei toni degli strumenti. Vi e' poi un breve pezzo, Un Amore Chirurgico, che introduce la canzone successiva, a porre ulteriore enfasi su quello che la band probabilmente reputa il loro brano migliore. E' un pezzo parlato inizialmente, e concluso da leggeri accenni strumentali, esprime l'irrequietezza ed il nervosismo che precedono un'esplosione emotiva. Infatti l'Amami raccoglie la tensione creata e la espande all'infinito, grazie all'atmosfera carica e densa resa dagli strumenti, e i testi che cantano di un rapporto morboso e tormentato, che si conclude nella peggior maniera. Si tratta sicuramente di una delle canzoni migliori del disco, ma non la mia preferita, in quanto forse un po' eccessiva, tirata, a mio modesto parere la band esagera un po' nella parte finale, forse si e' puntato un po' troppo su questo brano. Ma questo e' davvero l'unico difetto di un disco altrimenti impeccabile. L'ultima traccia, I/O, e' nettamente piu' prog, trascinata dal basso e con una batteria che pesta alla grande; forse la canzone piu' melodica del lotto, conclude in maniera perfetta un disco sorprendente. L'Uomo Infinito e' senza dubbio una delle migliori uscite nell'ambito del prog italiano, una piccola rivoluzione di genere, spero che la band si mantenga su questi livelli a lungo perche' hanno davvero tantissimo da dire.

lunedì 7 luglio 2014

Humble Grumble - The Face of Humble Grumble (2008)

Gruppo belga capitanato da un ungherese, gli Humble Grumble partono dal folk per arrivare al jazz ed al funk, il tutto condito da una buona dose di humor ed ironia di stampo zappiano. Molti strumenti quindi, a creare quell'atmosfera eclettica, brani cangianti e quasi improvvisati, soluzioni inaspettate, ai limiti dell'avant-garde, tre voci e liriche fantasiose. Tutto comincia a Ghent nel 1996, da due dei membri della folk band Dearest Companion:l'ungherese chitarrista e cantante Gabor Voros ed il belga fiammingo nonche' bassista Tom Theuns. I due avevano scritto parecchi brani durante il periodo con i Dearest Companion, e decidono quindi di formare una propria band. Il primo album degli Humble Grumble e' di conseguenza formato dalle composizione dei due musicisti e viene autoprodotto nel 2000, chiamato Dreamwavepatterns, praticamente introvabile. Durante questi quattro anni i due hanno suonato in centinaia di locali in Germania e Svizzera, scrivendo brani on the road e suonando con musicisti raccattati lungo il cammino. A questo punto pero' Tom decide di abbandonare il compagno, e quest'ultimo prende la decisione di formare una band piu' stabile e provare magari a trovare un'etichetta ed un manager. Un nuovo lavoro vede quindi la luce quando siamo nel 2004, ancora autoprodotto quindi ancora introvabile, chiamato Rockstar. Il nucleo della band e' ora piu' regolare, con le cantanti Megan Quill e Franciska Roose, Jouni Isoherranen al basso e tastiere, Jonathan Callens alla batteria, Pieter Claus e' lo xilofonista, Pedro Guridi al clarinetto, Pol Mareen al sax e Jeroen Baert al violino. Il momento della svolta arriva finalmente nel 2005, quando il gruppo compone un album per celebrare i trent'anni di una band ungherese chiamata Kolinda con il compositore, anch'egli ungherese, Peter Dabasi, che sfocera' quindi nell'album 30 Years Kolinda, pubblicato dall'etichetta Pan Records nel 2006. Finalmente gli Humble Grumble hanno l'attenzione che si meritano e i primi due album vengono ripubblicati insieme in un nuovo disco chiamato The Face of Humble Grumble (2008) dall'etichetta Cocktailsoul. Seguono altri due lavori pubblicati dall'italiana Altrock Records, Flanders Fields (2011) e Guzzle It Up (2013). L'ultimo album mi e' piaciuto molto, questo The Face of Humble Grumble mi piace invece davvero tanto. Si sente che sono due opere prime, la genuinita' e la spontaneita' della proposta mi hanno conquistato. L'album comincia con il brano I'm Horny, giusto per introdurci al fantastico mondo degli Humble Grumble. La voce di Gabor, i fiati, lo xilofono, sono protagonisti principali di questo pezzo breve e rapido, con le voci delle cantanti a decorare e mugolare; atmosfera jazzata ed orecchiabile, ritmo intenso. La seconda traccia e' Dental Chair, che comincia con un assolo di chitarra accompagnato ancora dallo xilofono; ben presto i fiati incalzano e prendono il controllo della situazione, duettando piacevolmente con la batteria e le percussioni; in seguito fa capolino la voce che, delirando, ci conduce verso il ritornello, che parla di sedie da dentista. Il fatto che ci sia un ritornello ci suggerisce che i brani sono strutturati in forma canzone e, pur presentando virate e cambi di ritmo, si mantengono comunque definite in una struttura regolare. Arriviamo quindi alla terza traccia, Marriage, che comincia con l'alternanza fra un pezzo cantato ed un pezzo strumentale tirato e carico; e' questo in pratica il leit motive del brano, pero' la parte vocale e quella strumentale cambiano in continuazione, mutando dal folk, al jazz, al pop. I'm so Blue comincia con una reprise di un pezzo classico di cui non conosco il titolo, e' il brano piu' lento e malinconico nelle intenzioni, anche se e' impossibile non sorridere all'ascolto di questo brano; chitarra e voce femminile conducono, con i fiati ad intercedere e riproporre il motivo iniziale, canzone schematica ma ben riuscita. Wineless Mind comincia con sax e clarinetto ad incrociarsi e duettare, descrivendo quello che sara' il riff conduttore della canzone, presto la batteria e l'immancabile xilofono incalzano, la voce e la chitarra un attimo dopo; il resto del brano e' dedicato ad un solo di chitarra prima e di sax poi, per infine riproporre la parte cantata. Rockstar alza il tono, partendo a razzo con un'orecchiabile strofa cantata con batteria e chitarra in evidenza; il brano poi evolve grazie alle tastiere, i fiati e la voce del cantante, che si lasciano andare a soli ed evoluzioni spettacolari, mentre il coro iniziale viene ripetuto ciclicamente. Purple Frog comincia con un solo di basso che viene presto accompagnato dai fiati e dal violino, e' una canzone che non cambia cio' che abbiamo sentito finora: ritornello orecchiabile ed in mezzo evoluzioni, soli, improvvisazioni, stacchetti, il tutto molto piacevole. Love Song e' la degna conclusione di questo ottimo lavoro: curiosamente riprende il giro di sax con cui si era conclusa la traccia precedente, facendone il conduttore del brano, il tutto intervellato dai soliti duetti fiati-tastiere, chitarra-fiati, e cosi' via. Quando fa finalmente capolino la voce siamo ormai a meta' brano, e l'atmosfera improvvisamente cambia, facendosi celestiale e solenne, anche se e' ancora una volta impossibile non cogliere l'ironia della situazione. La canzone torna ad essere strumentale a questo punto e volge al termine con lo stesso slancio con cui era iniziata. Una delle migliori band belghe di sempre, consiglio l'ascolto di tutti e quattro i loro album e questo in particolare.

venerdì 27 giugno 2014

Traffic - John Barleycorn Must Die (1970)

I Traffic, le cui vicende si legano indissolubilmente agli umori ed alle fortune del leader Stevie Winwood, non sono sempre inclusi nel filone prog, in quanto caratterizzati da uno stile tendente al blues, folk e psichedelia, ma stiamo parlando di un periodo in cui i confini fra i generi erano molto piu' labili, un periodo in cui le band non "decidevano" che musica fare, ma piuttosto si lasciavano andare all'ispirazione, consapevoli o meno di stare scrivendo nuove pagine della storia musicale e contribuendo alla nascita di nuovi stili, un periodo in cui si badava ancora piu' alla qualita' del prodotto in se' che a quanto avrebbe potuto fatturare. Dicevamo di Stevie Winwood, precoce multi-strumentista, personaggio controverso, antipatico ed egoista, e anche un po' opportunista, il quale esordisce con gli Spencer Davis Group all'eta' di 15 anni, nei quali canta. Durante una jam session con altre band inglesi, tali Hellions and Deep Feeling e Locomotive, incontra i suoi futuri compagni di avventura, il batterista e cantante Jim Capaldi, il chitarrista Dave Mason ed il fiatista Chris Wood. I quattro intuiscono di avere del potenziale e formano una propria band, chiamata Traffic da un'idea di Capaldi mentre attraversava la strada. E' il 1967. Stevie Winwood in questo frangente non si preoccupa neanche di informare i membri dello Spencer Davis Group della sua dipartita, ma lascia al suo manager l'incombenza. I quattro musicisti danno quindi alle stampe Mr. Fantasy e, l'anno dopo, Traffic, il quale contiene la hit Feelin' Alright, brano rielaborato da Joe Cocker. A questo punto Mason lascia, a causa della discordanza sulla direzione musicale con cui continuare. Egli inoltre rilascera' dichiarazioni poco lusinghiere nei confronti di Winwood, accusato di essere maniacale, dispotico, e di prendersi troppo sul serio. Dopo Last Exit del 1969, Winwood decide di abbandonare la band, che quindi si scioglie, per formare il supergruppo Blind Faith con Eric Clapton, Ginger Baker e Rich Grech, lasciando i suoi compagni nello sgomento e nella sorpresa. In un'intervista il musicista afferma di non dover fornire giustificazioni per il suo abbandono, a quel punto della sua carriera gli sembrava "naturale" andare a formare una band piu' ambiziosa e professionale. Val la pena fare menzione del fatto che Winwood e Wood in questo periodo compaiono come session man per le registrazioni di Electric Ladyland della Jimi Hendrix Experience. Ad ogni modo, i Blind Faith non durano e Stevie si ritrova da solo a tentare di scrivere il suo nuovo album. Qui nasce John Barleycorn: sarebbe dovuta essere un'opera solista chiamata Mad Shadows del cantante, tastierista, chitarrista e bassista, ma costui si ritrova ben presto nell'impossibilita' di curare tutte le parti strumentali e chiama quindi i suoi vecchi compagni Jim Capaldi e Chris Wood, i quali evidentemente avevano bisogno di un rilancio all'epoca. E qui avviene l'intuizione di Stevie, che capisce che sarebbe stato meglio pubblicare il lavoro come quarto album dei Traffic, piuttosto che come lavoro solista, poiche' cio' avrebbe potuto rilanciare le quotazioni della band e fungere da apripista per eventuali altri album sotto lo stesso nome. E cosi' e' stato, cio' che pero' Stevie non aveva previsto fu l'incredibile successo dell'album in questione, il lavoro piu' completo e maturo dei Traffic, che li lancia nell'olimpo del rock e del successo commerciale. A differenza dei tre lavori precedenti, piu' incentrati sulla psichedelia, principalmente per volere di Mason, quest'album presenta tracce blues, folk elettrico, classica e jazz, per una commistione di forte impatto, muscolare, calda, ricca di groove e passione. Seguiranno altri quattro album che non riusciranno mai a ripetere i fasti del passato. John Barleycorn Must Die e' uno splendido esempio di contaminazione stilistica: cio' che era rimasto dei primi Traffic viene ora arricchito da elementi folk e jazz filtrati attraverso le sonorita' prog del periodo, con il risultato di un suono dalle sorprendenti aperture strumentali. Si tratta di un originale prog folk di straordinaria varieta' e freschezza, ancora attualissimo, e senza riferimenti immediati: le radici folk sono reinterpretate attraverso il soul, ampliate con arrangiamenti jazzistici, sostenuti dalle tastiere di Winwood e dai ricami fiatistici di Wood. Si va dall'opener Glad, traccia lunga, allegra, jazzy, e molto rock, alla seconda Freedom Rider, funky ed orecchiabile come un motivetto invadente; Empty Pages, piu' lenta ma caldissima e carica di ritmo, forse il miglior momento di Stevie all'organo, quando aveva appena 22 anni; si prosegue con I Just Want You to Know, Stranger to Himself e John Barleycorn (Must Die), episodi ancora molto riusciti, fra blues e folk. Every Mother's Son e' un altro piccolo capolavoro che chiude la versione originale dell'album, infatti vi e' una ristampa con 4 tracce aggiuntive di cui le due ultime live, che sicuramente arricchiscono ma non imprenscindibili. Anche questo stupendo album in vinile fa parte della mia preziosa collezione.

mercoledì 23 aprile 2014

Crystal Phoenix - Crystal Phoenix (1989)

Cosa rende un album degno di essere ascoltato e divulgato? Sicuramente deve possedere una musicalita' piacevole, i testi sono anche un aspetto da non sottovalutare, ma a cio' aggiungerei anche l'ambiente, le condizioni in cui e' stato partorito, la particolare storia che si annida dietro, lo stato d'animo dell'artista durante quel periodo. L'album di cui mi accingo a parlare e' molto bello nelle intenzioni, le melodie molto indovinate, intense le emozioni che riesce a suscitare, anche se purtroppo pecca in produzione, ed il suono ne risente abbastanza, inoltre sarebbe stato meglio eseguito da una band vera e propria. Ma al di la' dell'aspetto prettamente musicale, e' un'opera nata e diffusasi in circostanze improbabili ed abbastanza stupefacenti. Infatti, ed e' il primo dei tanti aspetti peculiari di questo disco, si tratta di un progetto di una one woman band, come pochissime ce ne sono nell'ambiente musicale, la quale e' l'autrice di musiche e testi, nonche' esecutrice di tutti i brani, disegnando persino la copertina dell'album. Lei si chiama Myriam Sagenwells Saglimbeni, e' di Domodossola, canta, suona chitarra elettrica, acustica, basso, arpa e liuto, non ha mai fatto il conservatorio, ed e' cresciuta a metal e Bach. Non e' mai purtroppo riuscita a fare della sua passione un lavoro, e quest'album rimane uno dei due soli episodi della sua carriera da autrice musicale. Alla fine degli anni '80 cantava in una band di Milano chiamata Reinless, ma aveva da parte del materiale scritto da lei che la sua band non prese mai troppo sul serio. Decise quindi di registrare il disco da sola e riusci' a trovare un contratto con la Videostar di Genova, che pubblico' il vinile nel 1989. Leggenda narra che ci furono delle incomprensioni fra i manager dell'etichetta ligure e l'artista, e che quindi la maggior parte delle copie del disco vennero volutamente distrutte. Accadde pero' che nel 1993 una delle poche copie in circolazione fini' nelle mani di Massimo Gasperini, che stava in quei giorni fondando la Black Widow, il quale si innamoro' immediatamente del lavoro e decise di pubblicarlo per la propria neonata etichetta. Cosi' il secondo aspetto peculiare di questo album e' il fatto di essere la prima pubblicazione della ora famosa label progressive, rendendolo un disco "cult" fra gli appassionati del genere. Le coincidenze pero' non finiscono qui, visto che l'anno dopo, il CD finisce chissa' come sulla scrivania di un produttore musicale coreano, che manco a dirlo adora l'album, e contatta la casa discografica di Genova per poterlo pubblicare in Corea del Sud. Crystal Phoenix diventa quindi anche il primo contratto internazionale della Black Widow. Dal punto di vista stilistico, si tratta di un lavoro per comodita' inserito nel filone prog, trattandosi di un misto originale di folk, musica medioevale ed epic/heavy metal. Un disco sicuramente particolare, che spiazza ad un primo ascolto, diventando pero' familiare ed interessante appena si riesce ad andare oltre la singolarita' della proposta. La voce di Myriam e' protagonista principale, non esattamente diversa da altre voci, pero' all'altezza della situazione, cristallina e sempre intonata. Chitarra acustica ed arpa sono altri elementi frequenti, imprescindibili nel creare atmosfere con rimandi alla musica medioevale ed epica; chitarra elettrica e basso nei brani metal, tastiere per creare tappeti sonori ed accrescere cosi' il senso di epica drammaticita' che si vuol dare a tutto l'album completano l'opera, peccato per la batteria campionata che, insieme alla registrazione approssimativa, compone gli elementi deboli del disco. Il lavoro  comincia con  lo strumentale Damned Warrior,  pezzo metal,  veloce e  robusto, breve quanto basta e guidato dalla  chitarra, che ricorda qualcosa degli  Iron Maiden. La  canzone  seguente, 474  Anno  Domini, e'  aperta  da celestiali  arpeggi  di chitarra acustica, con la voce di Myriam che presto incalza, anch'essa calma e suadente; ma presto l'atmosfera cambia, diventando tragica e decadente, mantenendosi sempre in territori acustici. La melodia vira lentamente verso la calma iniziale, senza perdere in drammaticita', e volge cosi' a conclusione fra arpe e chitarre. Se la prima traccia era dichiaratamente metal, la seconda folk/acustica, la terza, Somewhere, Nowhere Battle e' di matrice chiaramente medievale, con liuto, piffero e una leggera percussione; su tutto spicca la voce di Myriam, ora piu' solenne che mai, a descrivere una melodia orecchiabile, triste, ancora decadente. Loth' er Siniel comincia con basso e chitarra acustica, una leggera tastiera di sottofondo, umore che non cambia, mantenendosi sul tragico/solenne, anche se un attimino piu' luminoso in questo brano. Cori e tastiere colorano una canzone discreta, lenta e sognante, che prosegue scorrevole ed invariata per tutta la sua durata. La quinta traccia, mini-suite di quasi 7 minuti, si intitola Heaven to the Flower/Violet Crystal Phoenix, comincia malinconica e triste, grazie ad arpeggi di chitarra ed alla voce, che ora e' piu' sommessa; l'apparente tranquillita' non dura molto, infatti la chitarra elettrica finalmente sopraggiunge, la voce incalza, e si viaggia verso un hard rock drammatico e melodico. A pochi minuti dalla fine il brano cambia, il ritmo accelera, e la chitarra elettrica prende le redini, ben incalzata dalla batteria, eseguendo un assolo scorrevole e granitico, fino in pratica alla fine della canzone. L'ultima traccia, Dark Shadow, altra mini-suite divisa in The Dove and the Bat e The Last Flyght, comincia con la solita chitarra acustica, anche se ora piu' vivace e veloce, creando un'atmosfera tesa e nervosa, con la voce e la batteria che contribuiscono a rafforzare questa sensazione; il suono si irrobustisce a meta', la voce si alza, e il ritmo accelera un pochino, tentando un'altra sortita metal, questa volta un po' meno riuscita. Salva tutto un ottimo assolo di chitarra elettrica, ancora migliore del precedente, che cede poi alla voce la quale va cosi' a concludere con toni epici il lavoro. Per concludere, riporto un breve tratto di un'intervista a Myriam, dal quale personaggio sono rimasto sinceramente affascinato: "Forse per il genere di studi che ho intrapreso, o forse per attitudine, non so, ho sempre visto e percepito ogni cosa su tre livelli. Tipo: concetto, significante e significato. Il concetto si esprime con il linguaggio che ha dei ‘segni’ verbali che però possono essere fraintesi. La musica è il linguaggio più immediato, universale perché scavalca i segni che sono le parole e tocca direttamente le sensazioni. La musica può far ricordare (passato) ed immaginare (futuro) con l’ascolto (presente). Da piccolissima pensavo che le persone si potessero capire tra loro guardandosi negli occhi, poi ho capito che questo linguaggio non verbale è andato perso, il concetto mimetizzato e occultato con le parole. Quindi l’unica cosa che rimane intoccabile, al di là di ogni parola resta la musica. Essa non mente."

domenica 30 marzo 2014

Anima Morte - Face The Sea Of Darkness (2007)

Gli Anima Morte sono una band di Stoccolma attiva dal 2005 circa, che ha dato alle stampe solo due album su CD ufficiali, ma anche numerosi singoli ed uscite in vinile. Face the Sea of Darkness e' il primo di questi due CD ed il meglio riuscito a mio parere. Il nome fa intuire influenze italiane, infatti per stessa ammissione del tastierista, Goblin ed Ennio Morricone sono due delle fonti di ispirazione principali, con elementi sinfonici ed elettronici in aggiunta, che scaturiscono in un suond da colonna sonora, oscuro, misterioso, elegante, solenne a tratti. L'intero album e' strumentale e senza soluzione di continuita', diviso in 11 tracce trascinate da chitarra e tastiere che dipingono atmosfere cariche di elettricita', intense, lontane, a volte un po' fredde. Di certo e' un album molto orecchiabile, richiede un po' di ascolti prima di essere assimilato, dopodiche' le melodie cominciano a diventare familiari e riconoscibili. Il ritmo e' sempre sostenuto, ogni intreccio, ogni armonia molto indovinati e piacevoli, l'intero lavoro scorre via liscio e coinvolgente. Sicuramente la sobrieta', l'ordine e l'eleganza sono punti cardine della musica degli Anima Morte, non aspettatevi soluzioni audaci, sperimentazioni e bizzarrie, ma cio' non significa che l'album manchi di originalita', anzi; la band e' bravissima nell'alternare momenti piu' robusti e potenti, quasi metal a volte, a ballate acustiche e brani piu' morbidi e dolci, senza interrompere mai il flusso sonoro. Molto piano e molto organo lasciano il posto a tastiere digitali e timbri piu' industriali, il chitarrista e' a suo agio all'elettrica come all'acustica, sezione ritmica impeccabile. I membri della band sono Daniel Cannerfelt alla chitarra, Stefan Granberg suona basso, chitarra e synth, Fredrik Klingwall e' il tastierista, Teddy Möller il batterista. Come detto, l'album e' scorrevole e piacevole nella sua interezza, ma brani che spiccano sono He Who Dwells in Darkness, Devoid of a Soul, A Decay of Mind and Flash e Funeral March. Secondo il mio modesto parere un album che ogni progster dovrebbe avere, una gradevole alternanza di esplosioni e passaggi morbidi, calma e agitazione, tempeste e cieli sereni, in neanche 40 minuti di musica raffinata e nostalgica.

mercoledì 15 gennaio 2014

Il secolo dei lavori stupidi

Nel 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia sarebbe progredita abbastanza da permettere a paesi come il Regno Unito o gli Stati Uniti di approdare alla settimana lavorativa di quindici ore. Aveva ragione: in termini di tecnologia, saremmo perfettamente in grado di riuscirci. Eppure non è ancora successo. Anzi, semmai la tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più. A tale scopo sono stati creati lavori che sono di fatto inutili. Enormi schiere di persone, soprattutto in Europa e Nordamerica, trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili. I danni morali e spirituali che derivano da questa situazione sono profondi. È una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva. Eppure non ne parla praticamente nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo. Messi davanti alla scelta tra meno ore di lavoro e più giocattoli e piaceri, abbiamo collettivamente scelto i secondi. Il che porterebbe con sé anche una morale simpatica, non fosse che basta riflettere un attimo per capire che non può essere così.
È vero, dagli anni venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose. Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori? Un recente studio che confronta l’occupazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 2000 ci fornisce un’immagine chiara. Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, “le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio” sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione (anche calcolando il numero di lavoratori industriali a livello mondiale, comprese le masse che sgobbano in India e in Cina, questi lavoratori non rappresentano neppure alla lontana la stessa percentuale di popolazione mondiale di una volta).
Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo, arrivando a comprendere la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, o l’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. E questi numeri non comprendono tutte quelle persone che per lavoro forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, né – se è per questo – l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre. Sono mestieri che propongo di definire “lavori stupidi”.
È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere. Certo, nei vecchi stati socialisti inefficienti come l’Unione Sovietica, dove il lavoro era considerato insieme un diritto e un sacro dovere, il sistema si occupava di inventare tutti i lavori necessari (ecco perché nei grandi magazzini sovietici ci volevano tre commessi per vendere un pezzo di carne). Ma questo, naturalmente, è proprio il genere di problema che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Secondo le teorie economiche, perlomeno, l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso.

È vero, le grandi aziende operano spesso tagli spietati, ma licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose. Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano, un po’ come i sovietici di una volta, a lavorare in teoria quaranta se non cinquanta ore alla settimana, ma lavorandone di fatto quindici proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili facebook o scaricare roba. Chiaramente la spiegazione non è economica: è morale e politica. La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale (pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa). E d’altra parte, l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, e che chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente, torna straordinariamente comoda a molti.
Una volta, riflettendo sulla crescita apparentemente infinita degli incarichi amministrativi nei dipartimenti accademici britannici, mi è venuta in mente una possibile visione dell’inferno. L’inferno è un insieme di individui che passano il loro tempo a svolgere un compito che non amano e nel quale non sono particolarmente bravi. Per esempio, sono stati assunti perché bravissimi a fabbricare mobili, dopodiché scoprono di dover passare un sacco di tempo a friggere pesce. E nemmeno quello è un compito necessario: c’è solo un certo numero molto limitato di pesci che vanno fritti. Eppure tutti questi individui sono così ossessionati dall’idea che qualche collega possa passare più tempo di loro a fabbricare mobili, senza sobbarcarsi la sua quota di dovere nella frittura del pesce, che presto nel laboratorio si accumulano innumerevoli montagne di pesce inutile e mal cotto, e nessuno fa nient’altro.
A dire il vero, questa mi sembra una descrizione piuttosto precisa delle dinamiche morali che governano la nostra economia.
Mi rendo conto che simili argomenti possono suscitare alcune obiezioni, tipo: “Chi sei tu per stabilire quali lavori siano necessari? Ma poi cosa vuol dire necessario? Tu che insegni antropologia, che necessità soddisfi?” (in effetti un sacco di persone considererebbero l’esistenza del mio lavoro come la definizione stessa di “spesa sociale inutile”). Da un certo punto di vista, questo è ovviamente vero. Non esiste un modo per misurare oggettivamente il valore sociale.
Non avrei mai la presunzione di dire a una persona convinta di dare un contributo importante al mondo che, sotto sotto, non lo dà. Ma come la mettiamo con le persone convinte di fare un lavoro stupido? Qualche tempo fa ho riallacciato i contatti con un compagno di scuola che non vedevo da quando avevamo dodici anni. Mi ha sbalordito scoprire che nel frattempo lui era diventato prima un poeta, poi il cantante di un gruppo rock alternativo. Avevo sentito alcune sue canzoni, senza avere la minima idea di conoscere il cantante. È chiaramente una persona brillante, innovativa, il cui lavoro ha indiscutibilmente ravvivato e migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo. Ciò nonostante, dopo un paio di album andati male, ha perso il suo contratto discografico e, sommerso dai debiti e con una figlia appena nata, ha finito, sono parole sue, per “imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza”. Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere.
A questo punto ci si potrebbero fare tante domande, cominciando da: che cosa dice della nostra società il fatto che riesca a generare una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi, a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? (Risposta: se la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1 per cento della popolazione, allora quello che definiamo “mercato” rifletterà ciò che loro, e nessun altro, considerano utile o importante). Ma ancor di più dimostra che di solito chi fa questi lavori alla fin fine si rende conto che sono stupidi. Anzi, credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido. Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie descritte poco sopra. Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro.
Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere? Come può un fatto del genere non creare una rabbia e un risentimento profondi? Tuttavia, il talento tutto particolare della nostra società sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo, come nel caso dei friggitori di pesce, per garantire che questa rabbia venga indirizzata contro chi invece fa un lavoro sensato. Per esempio: nella nostra società sembra vigere una regola generale per cui più il lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato. Ripeto, è difficile individuare un parametro di misurazione oggettivo, ma per farsi un’idea basta semplicemente chiedersi: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore. Non è però del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare). Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni (i medici), la regola resiste sorprendentemente bene.
Cosa ancor più perversa, sembra circolare la diffusa convinzione che sia giusto così. Ecco qual è uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra. Lo si vede quando fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto: il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo. È ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile (e non, dettaglio significativo, contro chi amministra le scuole o contro i dirigenti che creano i problemi) a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: “Ma voi insegnate ai bambini! O costruite le macchine! Fate dei lavori veri! E avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?”.
Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio. I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente. Gli altri si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla, e che ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori eccetera) – in particolare con le loro personificazioni economiche – ma che al tempo stesso covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale. Non è un sistema progettato in modo conscio: è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno.

di David Graeber

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