venerdì 26 febbraio 2016

Autumn People - Autumn People (1976)

Gli Autumn People sono un'oscura band di Phoenix, Arizona, formatasi nel 1968 e che ha dato alle stampe un unico omonimo album nel 1976, per poi scomparire nel nulla. Non si hanno notizie biografiche sulla band e anche scoprire che fine hanno fatto i quattro musicisti non e' stato facile. Larry Clark, il chitarrista e cantante, e' rimasto nel giro musicale suonando in diverse band e pubblicando parecchi album, come anche il tastierista e cantante Danny Poff, mentre del bassista Cliff Spiegel e del batterista Steve Barazza non si sa piu' nulla, neanche se siano ancora in vita. Ed e' davvero un peccato, il batterista mi sembra il piu' dotato dei quattro, come e' anche un peccato che la band sia morta cosi'. Come tutti i gruppi americani, il sound degli Autumn People e' distante dai modelli inglesi, tendente all'infinito verso quel punto d'incontro fra pop e prog, con canzoni sbilanciate verso l'uno o l'altro lato. La band non va molto per il sottile, bada alla sostanza, puntando su solide e calde basi melodiche affiancate da spunti individuali, fughe psichedeliche e un pizzico di hard rock. Personalmente e' un album che mi e' piaciuto molto, non troppo complicato ne' lungo (40 minuti), con melodie che cominciano ad essere riconoscibili gia' dai primi ascolti. E' un album solido ed omogeneo, con qualche picco e qualche pecca, che scorre via fluido e piacevole. La prima traccia e' Rock & Roll Fantasie, abbastanza rock difatti, che si regge tutta su un indovinato riff di chitarra e sul canto, roccioso e robusto anch'esso, affiancati da semplici linee di synth ed un ottimo drumming. Traccia sufficientemente indovinata da non avere bisogno di variazioni e che fa passare 3 minuti e mezzo in un lampo. La seconda canzone, Feeling, e' piu' intimista e meno solare: introdotta da struggenti note di organo, la chitarra vi si inserisce con grande naturalezza ed il canto fa il resto. Come la traccia precedente, non ci sono troppe variazioni, salvo un ottimo solo di chitarra nella parte centrale. Quanto sentito finora si puo' difficilmente collocare nel genere progressivo, e' piu' un pop raffinato ed elaborato. Per sentire qualcosa di piu' prog dobbiamo aspettare il terzo brano, See It Through: piu' variabile, con ottimi intrecci chitarra-basso, cori e tastiere psichedeliche. Il canto e' impeccabile, cattura bene l'attenzione dell'ascoltatore, mentre gli strumenti collaborano fra loro alla perfezione. Never See the Sun e' la naturale continuazione della traccia precedente: con una minima variazione armonica i nostri costruiscono un altro brano, e non e' roba da tutti. Ancora pop come base, melodie orecchiabili, canto indovinato e riff di chitarra solido come granito, ma il prog e' li' che fa capolino, quando i musicisti decidono di lasciarsi andare alle proprie, seppur brevi, intuizioni personali. Nessuna delle quattro canzoni sentite finora raggiunge i 4 minuti, mentre cio' che ci apprestiamo ad ascoltare ora e' il primo di tre lunghi brani in successione, fra i 6 ed i 7 minuti di durata. Gabriel, la quinta traccia, vuole probabilmente essere il pezzo piu' prog: decadente, malinconico, si discosta per un attimo dalla spensieratezza d'animo sentita fin qui, ed anche i ritmi ovviamente si fanno piu' rilassati e le atmosfere piu' soffuse. Cio' che purtroppo ne perde e' la melodia, forse questa e' la canzone meno indovinata del disco. Ovoid & Cubicle, la traccia piu' lunga, torna su binari piu' caldi ed accoglienti, con un attacco molto ben costruito, fra voce, chitarra e basso. Dopo un minuto e mezzo i musicisti si lanciano in una jam che durera' quasi fino alla fine della canzone: chitarra sempre presente ora con strimpellate, ora con soli; tastiere atmosferiche in certi frangenti o acide nella conduzione in altri; basso e batteria sempre in grande spolvero; voce distorta ed ossessiva; sono gli ingredienti di questa splendida marmellata sonora. Una reprise del motivo iniziale conclude il pezzo piu' elaborato del disco, di sicuro uno dei momenti migliori. Moon's Dancing, il settimo brano, e' introdotto da flauto, chitarra e canto, che dipingono un tema triste ed etereo, grazie a pennellate strumentali leggere, che rendono bene un'atmosfera rarefatta e decadente. La canzone evolve leggermente, grazie all'ingresso delle tastiere, che accentuano le sensazioni provate fino a questo punto, mentre ottimi soli di chitarra arricchiscono il tutto e stiracchiano il pezzo. Il flauto chiude il brano con un altro pezzo di bravura. Interlude e' una breve traccia di passaggio condotta da tastiere solenni e spaziali, e scrivere un brano di due minuti e mezzo per sola tastiera che non annoi e' impresa non da poco. Infine vi e' Coffin Maker (probabilmente si parla del diavolo), il brano piu' hard dell'album e degno finale: dure sferzate di chitarra fanno da apripista, con le tastiere che salgono e permettono cosi' alla chitarra di cambiare registro e far partire il loop metallico che reggera' tutto il brano. Ad un certo punto gli strumenti si scambiano, le chitarre vanno sullo sfondo e reggono il gioco alle tastiere, che ora sono passate alla direzione e sono libere di spaziare. Il canto e' sempre perfettamente incastonato nel contesto e si adatta ai diversi umori. Un ultimo, grande e grosso riff di chitarra chiude traccia e lavoro. Insomma, un album curato, ispirato, originale, piacevolissimo all'ascolto, un'altra perla sconosciuta dell'undergorund prog e un'altra band dall'incredibile potenziale che ha dovuto chiudere bottega a causa della scarsa attenzione da parte del pubblico. Ci fosse stato internet negli anni '70.